Recensione: Counting Heartbeats
I Kongh rappresentano, senza dubbio, una delle più grandi sorprese del 2007. Fautori di uno sludge doom capace di racchiudere in sè molteplici influenze, dopo essere spuntati fuori dal nulla nel 2006 con un demo ottimamente prodotto e ricco di spunti originali, questi tre giovani musicisti sono ora alla prova del full-length dopo i numerosi consensi riscossi col demo, una prova che hanno superato promossi a pieni voti; i Kongh infatti si distinguono non solo per la qualità pura e semplice della loro proposta musicale, ma anche per l’originalità della stessa, e il loro primo album li conferma un gruppo eclettico e ricercato, in grado di portare un’inaspettata ventata di freschezza nel genere. Counting Heartbeat ripesca due tracce dal demo dando loro nuova vita grazie ad una ri-registrazione che si avvale di una produzione ora ancor più corposa, e ad esse affianca tre canzoni nuove di zecca. Il risultato? Un macigno dalla potenza deflagrante come non se ne sentivano da un po’.
Nella musica dei Kongh sono racchiuse un gran numero di contaminazioni: l’attitudine irruenta e grezza dello sludge (che costituisce il genere di riferimento e l’influenza predominante), la lentezza tipica del doom più sfibrante, atmosfere polverose e acide dal vago retrogusto desert rock, violentissime sfuriate non così distanti dal death metal… insomma, un ampio spettro di influenze che il gruppo manipola e amalgama con sorprendente maestria ed efficacia. Questi tre svedesi infatti potranno anche essere giovani, ma hanno le idee ben chiare, e soprattutto hanno talento da vendere, e non solo per la bravura dimostrata nel plasmare la loro musica, ma anche sul versante prettamente tecnico: basti ascoltare il frenetico e precisissimo drumming che non lesina in controtempi e raffinatezze varie, la roboante incisività del basso, e un chitarrismo folle che spazia da arpeggi dissonanti a sferzate di brutalità assoluta. Ciò che trasuda da Counting Heartbeats è creatività, entusiasmo, e grande capacità nel comporre canzoni molto lunghe ma sempre articolate, piene di variazioni e in grado di tenere sempre costante l’attenzione dell’ascoltatore grazie a continui tocchi di classe. Se le qualità strumentistiche del terzetto già sono state elogiate, c’è anche da evidenziare la potenza della voce del cantante/chitarrista, che per la maggior parte del tempo sfodera delle urla laceranti che non possono essere definite nè scream nè growl, ma probabilmente il punto d’incontro ideale fra i due stili, e in certi sporadici frangenti tira fuori un cantato leggermente più melodico ma sempre graffiante e aspro.
L’album si snoda fra episodi più tipicamente doom dalla pesantezza inaudita, come la title-track Counting Heartbeats e Adapt The Void, altri dove si gioca sapientemente sul filo della melodia alternata a martellanti sfuriate di violenza come nell’opener Pushed Beyond e in Megaprimatus, o ancora frangenti dove è il cieco assalto sonoro ad avere il sopravvento, come nella rumorosissima Zihuatanejo (che, insieme ad Adapt The Void, è una delle canzoni riprese dal demo). E i comuni denominatori di ognuna delle sfaccettature ostentate da questo lotto di canzoni sono sempre gli stessi: una forte personalità e una ricercata complessità.
I Kongh, partendo da una solida base sludge doom, sono riusciti a mischiare ad esso influenze che spaziano ai generi più disparati, e rielaborare il tutto secondo la loro particolare sensibilità: quel che ne risulta è un prodotto fresco, che emerge dalla massa per la sua spiccata identità e originalità. Counting Heartbeats è dunque un disco eccellente, un esordio al fulmicotone che mette in luce capacità straordinarie, e questi ragazzi svedesi meritano di essere premiati per il loro talento e per la carica innovativa di cui la loro musica è pregna.
Giuseppe Abazia
Tracklist:
1 – Pushed Beyond (11:10) * MySpace *
2 – Counting Heartbeats (12:04) * MySpace *
3 – Adapt The Void (15:20)
4 – Megaprimatus (13:07)
5 – Zihuatanejo (13:02)