Recensione: Crawling Human Souls
Ci sono band che, al primo colpo o quasi, giungono al contratto discografico. Altre che, per i motivi più disparati, non ci arrivano mai. Ad altre ancora, occorrono anni.
Quasi dieci, in questo caso, per i connazionali Nacom. Nati nel 2004, dopo due demo (“Affliction”, 2006; “My Tomb”, 2008) e una storia irta di difficoltà, il tanto sospirato debut-abum è stato finalmente partorito sotto l’egida della WormHoleDeath Records.
“Crawling Human Souls”, questo il titolo dell’Opera Prima, fa suo il popolare detto che accumuna lo scorrere del tempo all’essere galantuomo. Sì, poiché è chiaro sin da subito che i Nacom hanno raggiunto uno stato di grazia tecnico/artistico ben al di là di quanto potrebbe far pensare un lavoro che li fa di fatto affacciare per la prima volta dalla finestra sul Mondo.
A parte l’ineccepibile produzione, assai ordinata e pulita, quello che emerge immediatamente è la maturità di un sound che non presenta indecisioni di sorta; che ha ben chiaro, cioè, quale sia l’obiettivo primigenio da cogliere. Obiettivo che coincide con l’ottenimento del proprio stile. Quel sapore, quel sentore, quel colore unico che consente, se non al primo colpo, quasi, di riconoscere un’opera d’arte nella sua univocità. Il combo marchigiano fa death melodico, per entrare nel dettaglio, ma lo fa a modo suo. Tenendo piuttosto lontane le sottospecie cugine come swedish, cyber, modern metal; quindi tentando e ottenendo un approccio ricco di carattere e di personalità che trova pochi altri riscontri, in giro.
Merito delle tante influenze rilevabili con una certa facilità, che tendenzialmente, in teoria, potrebbero essere foriere di confusione stilistica. Invece, i Nacom riescono a mettere assieme i tanti frammenti di un rompicapo che rispondono ai più disparati profumi. La rabbia primordiale dello scellerato scream delle linee vocali, sovrapposte a furibondi rigurgiti di growl, in primis, che sanno tanto di black metal. Poi, l’uso delle tastiere che, grazie al loro gusto retrò, inducono il prog rock a riecheggiare a lungo nella mente. E, ancora, un robusto sottofondo con su scritto ‘heavy metal’ che, in certi momenti, affonda le sue radici nel substrato neoclassico. Così come i numerosi passaggi al pianoforte e alla chitarra acustica approfondiscono l’emotività di un suono comunque mai banale. Senza contare taluni divagazioni folkeggianti…
Tutto ciò potrebbe essere solo e soltanto il punto di partenza per il nulla, per la definitiva frammentazione di troppi elementi d’ispirazione. Invece, il sestetto di Jesi riesce, quasi incredibilmente, a mettere assieme tutto quanto senza perdere la bussola. Fondendo allo stesso tempo furiosa aggressività e avvincente melodiosità per un risultato mai scontato, ricco di spunti d’interesse seminati un po’ ovunque con convincente continuità.
Difficile pertanto trovare dei punti deboli in “Crawling Human Souls”. Ciascuna canzone appare ben definita, dotata di più che sufficiente autonomia; comprendendo peraltro episodi di notevole valore come per esempio la rutilante “The Curse”, dal favoleggiante riff portante e dalle ariose, epiche tessiture delle tastiere. Senza contare i fini ceselli solistici delle sei corde, valori aggiunti che si diluiscono lungo tutta la durata del disco. Il quale, a parere di chi scrive, culmina nella stupenda “Echoes Of Void”, brano strumentale dallo struggente crescendo e dal leitmotiv indimenticabile, per concludersi nella violentissima “Ritual”, sferzata da tempeste di blast-beats.
Davvero un disco notevole, Crawling Human Souls”, che dimostra innegabilmente l’alto livello qualitativo raggiunto dal metal estremo italiano. I Nacom, insomma, non hanno nulla da invidiare a nessuno.
Punto.
Daniele “dani66” D’Adamo
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