Recensione: Crimes In Mind (Reissue)

Di Eric Nicodemo - 29 Giugno 2014 - 12:41
Crimes In Mind (Reissue)
Band: Streets
Etichetta:
Genere: AOR 
Anno: 2013
Nazione:
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86

 

Gli anni ottanta produssero un cambiamento radicale nello stile dell’hard rock, generando l’heavy e adattando il genere al gusto del periodo, con la conseguenza di dare alla luce un secondo figlio: l’AOR, il quale rielaborò gli insegnamenti del padre, stemperandone la rabbia con un innato senso dell’armonia.

Non sappiamo se questa metamorfosi fu dettata dalle mode imperanti o dalla volontà di rinnovamento, ma è certo che più di qualcuno della vecchia guardia si lanciò nella nuova, grande avventura del melodic rock.

Per dimostrare quanto detto basta citare anche un solo complesso: gli Streets.

Gli Streets, gruppo misconosciuto ai più, nacque per volontà di Steve Walsh che, lasciati i Kansas per divergenze artistiche, decise di dedicarsi a nuovi orizzonti assieme a Mike Slamer (ex-City Boy), il bassista-cantante Billy Greer e il batterista Tim Gehrt (già attivo nell’album solista di Walsh, “Schemer Dreamer”, 1980).

La scelta si concretizzò con il debut album “1st”, ottimo apripista che non riuscì a ottenere il successo meritato, pur con buoni responsi da parte della critica.

Per nulla scoraggiato, l’indomito quartetto decise di riprovare dando alle stampe il seguito di “1st”, intitolato “Crimes In Mind”.

Alla regia un produttore in ascesa, Beau Hill che, dopo il successo di “Out Of The Cellar” dei Ratt, sostituì Neil Kernon alla direzione del progetto Streets. Al di là del già ottimo lavoro svolto da Kernon, Hill riuscì a mediare le sonorità moderne del periodo con l’impronta hard rock di Mike Slamer, chitarrista dal piglio esuberante ed energico.

Una sapiente miscela che viene riassunta nell’opener “Don’t Look Back”. Il brano è autoreferenziale, esprimendo la voglia di ripartire, senza fermarsi a guardare indietro, senza indugiare nei ripensamenti. E’ un titolo che ha la stessa forza di un ammonimento ma anche di una promessa, quella di tagliare i ponti con il passato e procedere decisi verso il futuro, quanto il groove impaziente di questa song.

Steve è la nostra guida verso nuove mete, sempre capace di una sicurezza che mai vacilla ed infonde enfasi latente nelle parole del testo.

La canzone non solo rivela il rinnovato sound della produzione ma introduce un taglio noir ed avventuroso che caratterizza l’intero album e lo differenzia dall’esordio dei Nostri: “Don’t Look Back”, infatti, è un dramma poliziesco trasposto in musica, alla quale è lasciato il compito di narrare il torbido omicidio di una donna e l’affannosa ricerca del criminale.

Nel video della canzone, Walsh, ingiustamente incolpato dell’assassinio, fugge dalla polizia assieme al vero colpevole, interpretato da Greer.

Su uno sfondo in stile thriller hollywoodiano, Mike e Tim Gehrt, vestendo i panni dei detectives, conducono le indagini alla ricerca dei responsabili dell’efferato gesto, un inseguimento spasmodico che contagia il playguitar scolpito da Slamer.

Il leitmotiv cupo e metropolitano prosegue e cala la tensione sul set di “The Nightmare Begins”, dove ci ritroviamo prigionieri in una notte oscura, intrappolati tra il riff vibrante di Slamer e le voci suadenti dei backings, che fanno risuonare il bisogno ossessivo di uscire da questo incubo.

Il post-chorus sfoca in tonalità vellutate, nel tentativo di trovare una via per fuggire dalle nostre paure ma la chitarra non arretra e continua a instillarci tensione.

Dopo l’affanno di una notte tormentata, l’atmosfera diventa surreale sulle note di una tastiera sognante e Steve ricama una dolce melodia.

In “Broken Glass” la chitarra incede con forza mutuata dall’enfasi di Walsh. Alla sei corde il compito di lasciare un messaggio vivido, catturando assoli acuti, penetranti, quasi striduli, creando un alone di tristezza, riflessa nei vetri in frantumi di una vita allo sbando, amareggiata dai rimorsi.

Dimentichi degli errori del passato, un riff sanguigno risveglia il nostro lato più rocker in “Hit ‘N Run”: è un ritmo seminale che diventa spericolato nell’arrembante refrain, spingendo a correre all’impazzata all’inseguimento dei nostri sogni, delle nostre ambizioni.

Dopo una breve sosta, Slamer scatena le vibrazioni della sei corde, facendo palpitare il nostro debole cuore. Una corsa veloce, su breve distanza ma dal richiamo irresistibile.

Ad un tratto, il loop magnetico dei synts ci ipnotizza come le movenze di una figura sinuosa celata tra le ombre. E’ un incanto che dura un’istante, allorché cadiamo preda della chitarra incombente della title track, “Crimes In Mind”.

Poco tempo ci rimane prima di essere coinvolti nel crimine del refrain, un piano elaborato grazie alla stretta collaborazione tra la brezza passionale racchiusa nei versi e l’energia sprigionata dal frontman.

Tastiere e chitarra combattano al centro, in questo gioco di potere, intervallandosi in un botta e risposta. Slamer prende il sopravvento, stremando la chitarra con lunghi assoli ma nel sottofondo le tastiere persistono, creando un chiaroscuro quasi a mimare una fitta trama di complotti e tradimenti. “I Can’t Wait” è un distillato di visioni anni ottanta filtrate attraverso la lente delle tastiere. Quando il dinamismo della chitarra combacia con la spontaneità del chorus, l’AOR stringe un patto indissolubile con il suono focoso dell’hard rock.

Un intro penetra misterioso, spezzato solo dalle bacchette di Tim Gehrt mentre “Gun Runner” si apre: la mira si affina e il duo Slamer/Greer unisce le forze formando una sessione strumentale compatta, dove la regia mette in primo piano il basso vigoroso solo per mitigare gli acuti della sei corde, vivida come non mai.

Desiree” ha la verve di una scolaretta irrequieta con le sue veloci ritmiche ma possiede tutta la maturità dell’adult rock unendo inflessione hard’n’roll e tastiere. Steve rincorre entusiastico i backings lungo le strofe, urlando “I got your number” trionfante nell’inseguimento dell’amore tanto agognato.

Rat Race” si lancia ancora sul filo della tensione, in una gara senza esclusioni di colpi.

E quando la sfida è iniziata, la partenza è bruciante con Greer alla voce, che ci conduce con controllo e velocità in un mondo spietato, all’interno del loop coinvolgente del ritornello. All’apice della lotta, gli assoli di Slamer si inseguono rapidi in un testa a testa, incisivi in una folle corsa per la vittoria.

Rat Race” è l’unica canzone in cui Greer riveste il ruolo di cantante, decisione presa in quanto Steve Walsh rifiutò il compito assegnatogli. Una sostituzione indolore, visto che il ruvido rock distillato nel brano calza perfettamente alla voce grintosa di Billy, capace di infondere una vitalità inesauribile alle strofe scritte da Slamer.

Turn My Head” è ancora un brano sospeso tra la verve delle cavalcate rock e la raffinata essenza dei beat AOR. La nostra testa si volta velocemente verso Walsh che ci chiama facendo risuonare la voce nel ritornello e nel chorus. Ancora più stretto il rapporto tra hi-tech e chitarra nell’inframezzo, quasi ad apporre un sigillo inviolabile sul connubio tra la musica dura e il mainstream rock.

La storia degli Streets si chiude in modo non dissimile da quanto visto con altre band: il gruppo non ottenne la giusta visibilità e decise di sciogliersi definitivamente.

Le prime avvisaglie della caduta erano iniziate quando la nascente MTV si rifiutò di trasmettere il video suddetto di “Don’t Look Back” perché mostrava l’omicidio di una donna il cui assassino era interpretato dallo stesso Walsh.

Nulla di più falso e prosaico, visto che nel clip si intravedeva solo la vittima cadere dopo il colpo, senza scene di violenza, né tanto meno del corpo ferito.

Al di là di questo episodio, le cose peggiorarono quando Walsh si ammalò e Beau dovette concludere la fase di mixaggio senza l’apporto necessario del singer agli Atlantic Studios di New York.

Si aggiunse l’attrito tra il manager degli Streets, Derek Sutton (manager storico degli Styx), e uno dei dirigenti dell’Atlantic, Doug Morris. La disputa riguardava essenzialmente una questione di marketing, per cui i complessi privi di un’immagine forte e già definita quanto Ratt e Twisted Sister, venivano scaricati dalla major.

Disinteresse alimentato anche dal fatto che la nota label già disponeva di nomi di prim’ordine, quali AC/DC e Foreigner.

Tuttavia a differenza degli Airrace, i semi degli Streets germogliarono in altri progetti, preservandone la memoria: Steve Walsh rientrò nei Kansas e, reclutato il compagno di ventura Greer e il nuovo chitarrista Steve Morse, realizzò “Power”, monumento che unisce l’hard rock e alcune influenze prog nel corpo dell’AOR.

E Slamer? Mike portò avanti la propria carriera contribuendo ad album di successo quali “Dirty Rotten” e “Cherry Pie” degli Warrant, senza contare la collaborazione con i Kix nell’album “Midnite Dynamite” (sempre prodotto da Beau Hill).

Ma il nostro seppe fare di più, riuscendo a rivitalizzare la scena rock degli anni novanta, fondando gli Steelhouse Lane, ricordati per la doppietta “Metallic Blue” (1998) e per l’elettrizzante “Slaves Of The New World” (1999), dove compare un rifacimento di “The Nightmare Begins”.

Tuttora Slamer continua ad entusiasmarci con i suoi Seventh Key, come testimonia il loro ultimo album “I Will Survive” (2013).

Al di là di un talento senza fine, la storia di Mike comunica un importante messaggio: l’eredità degli Streets, una delle tante favole del rock, non è andata perduta finché c’è il coraggio di mettersi in gioco, anche tra mille avversità.

 

Eric Nicodemo

 

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