Recensione: Crimson & Jet Black
Cosa attendersi da un gruppo che ha fatto di tradizione e classicità gli emblemi su cui costruire una carriera lunga più di quarant’anni?
Esatto: tradizione e classicità. In ossequio a radici che si piantano nel suono heavy primigenio, con i nomi di Accept, Saxon, Raven e Judas Priest in piena evidenza.
Del resto siamo dalle parti di roba storica: il nome degli Anthem non risulterà di certo ignoto ai più navigati frequentatori delle cose metalliche.
Fondato a Tokyo molti anni fa – nel preistorico 1980 – il gruppo si è reso noto e rispettabile proprio per la vena decisamente tradizionalista del proprio credo musicale, portata avanti non senza un pizzico d’orgoglio dal leader di sempre, il bassista Naoto Shibata.
“Crimson & Jet Black“, ultimo di una serie di album arrivata al diciannovesimo capitolo, rappresenta in tal senso un inno alla coerenza ed alla continuità. Heavy metal dai contorni inconfondibili, con una struttura che in qualche caso sfocia nel power e nel vagamente epico ed ha nella fierezza delle origini, l’identità da cui trarre slancio e forza.
Canzoni articolate, robuste e dalle ritmiche imponenti dimostrano quanto sia ancora ben fornita la vena creativa di Shibata e del suo fedele compagno ed alter ego, il fenomenale chitarrista Akio Shimizu.
Gente che l’heavy lo ama visceralmente, lo vive e lo respira. Ma soprattutto, lo sa suonare davvero bene.
Tutto spiegato sin dall’opener, la acceptiana “Snake Eyes“. Veloce, solida e potente e con l’ottima voce di Yukio Morikawa a darle corpo, non è di certo una celebrazione dell’inventiva o dell’originalità. Quanto piuttosto un sentito omaggio alla sostanza di uno stile peculiare che sta lontano anni luce dalle novità e vive chiuso entro confini ben delimitati. Ma che, quando realizzato con perizia e concreta devozione, conserva l’impagabile gusto genuino delle cose fatte artigianalmente. Senza star troppo a pensare a cosa serva per ottenere più o meno consensi.
Se poi i brani sono per lo più godibili, come in questo caso, tanto meglio.
Gli Anthem si confermano come sempre una buona ed affidabile risorsa per chi ancora ama gli Accept, i vecchi Saxon, i conterranei Loudness (di cui Shibata ha fatto parte per qualche tempo) ed in generale l’heavy classico in senso stretto e letterale.
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