Recensione: Crimson Messiah
Ed ecco che proprio sulla linea del traguardo annuale, quando nessuno si aspettava più grandi uscite e ci si stava già piazzando coi piedi sotto il tavolo, pronti a slacciare il bottone dei pantaloni in attesa del cenone di capodanno, dalla Germania arriva come un fulmine a ciel sereno “Crimson Messiah”, il nuovo lavoro di un gruppo la cui ultima testimonianza è datata undici anni fa, e che invece tomo tomo, cacchio cacchio minaccia di costringerti a rimettere mano allo specialone natalizio stilato con tanto amore e pazienza…
Procediamo per gradi: gli Iron Fate sono un gruppo proveniente dalla bassa Sassonia formatosi una quindicina di anni or sono, che arriva oggi al traguardo del secondo album dopo una pausa di, come già detto, ben undici anni. La proposta del quintetto alemanno si può definire come un heavy metal limpido e possente sporcato di power, dalla struttura spesso articolata, che non si vergogna di sbandierare il proprio amore incondizionato per la scena d’oltreoceano (tra i numi tutelari del gruppo non si possono non citare Queensrÿche, Jag Panzer ed Helstar) e quella britannica (chi ha detto Saxon?) del decennio d’oro. Chitarre piene, rombanti, tempi frastagliati e un tono imperioso – garantito dalla gran prova al microfono di Denis, autentico mattatore dell’album – sono i tratti distintivi di questo “Crimson Messiah”, che seppur assai derivativo dimostra di avere cuore e polmoni al posto giusto, con tutte le carte in regola per fare un bel botto nel cuore dei fan di un certo tipo di metallo. Nove tracce (più una cover dei Black Sabbath come bonus) per un totale di un’oretta scarsa di musica, durante la quale i nostri si divertono a passare da martellate poderose a brani più malinconici, cavalcate arroganti ed inni sornioni, per tenere sempre alto l’interesse dell’ascoltatore e non far pesare un minutaggio di tutto rispetto. Senza girarci troppo intorno, “Crimson Messiah” è un lavoro avvincente e dall’ottimo tiro, perfettamente bilanciato e col giusto grado di cafonaggine: ideale per chiudere degnamente un 2021 già bello carico di uscite di qualità.
Si parte alla grande con la tellurica title track, in cui carica propulsiva ed improvvise diluizioni melodiche dal sapore trionfale mettono subito in chiaro cosa stiamo per ascoltare: metallo d’assalto ma senza rinunciare a una melodia agguerrita. Si prosegue su coordinate simili con l’arrembante “Malleus Maleficarum”, dal substrato stradaiolo che introduce un altro elemento distintivo di questo “Crimson Messiah”: le infiltrazioni hard n’ heavy, che in questo caso donano alla traccia un profumo più dinamico. Il breve rallentamento sulfureo a metà canzone le infonde un tono plumbeo, solenne, ma tutto si risolve in un fuoco di paglia col ritorno a ritmi più agili e rockeggianti che ci traghettano al finale e alla successiva “We Rule the Night”, che dietro un titolo che più VirginSteelesco non si può cela, invece, un’anima decisamente più british. I ritmi si fanno più compassati, in un certo modo sornioni, e anche il vocione di Denis si avvicina al magnetismo declamatorio di un certo Biff Byford. Il pezzo in realtà si rivela un leggero passo indietro rispetto alla scoppiettante doppietta iniziale, privo di guizzi particolari e forse un po’ monotono, ma al tempo stesso ipnotizza così bene l’ascoltatore col suo fare da marcia cafoncella e stradaiola che mi sono ritrovato a canticchiarlo in un attimo. “Crossing Shores”, che vede la partecipazione come seconda voce di niente popò di meno che Harry Conklin dei Jag Panzer, incede con lo stesso fare cadenzato della traccia che l’ha preceduta ma punta su un suono meno sornione, più spesso, che si arricchisce di intrecci chitarristici intriganti nella sua parte centrale e di uno strascico quasi trionfale che striscia sotto la superficie nella chiusura. Un’apertura più d’impatto introduce “Mirage”, che poi torna a distendersi su tempi quadrati decorati da un buon lavoro delle chitarre, dal retrogusto ipnotico e insistente. L’ispessimento centrale infonde al pezzo un piglio più arcigno, scrollandosi di dosso un po’ di polvere prima di tornare a dispensare trionfalismo macchiato di malinconia giusto in tempo per il finale. Si arriva a “Strangers (In My Mind)”, power ballatona aperta da un arpeggio mesto e dotato di una certa inquietudine di fondo che accompagna la voce attraverso un paesaggio desolato. Come da copione, l’improvvisa fiammata impenna il pathos del pezzo, che poi torna ad avvolgersi intorno a melodie languide in attesa del successivo indurimento. La traccia procede così per la prima metà dei suoi dieci minuti scarsi, profumandosi nella parte centrale di arcigna solennità. La sveglia arriva al sesto minuto, con una carica improvvisa che trasforma il pezzo in una sfavillante cavalcata, poderosa e vorticante, fatta di ottimi intrecci e linee vocali bellicose che sfociano, poi, in un climax trionfale di quelli fatti bene, per chiudersi di nuovo nell’arpeggio iniziale. “Hellish Queen” si assesta su ritmi agili e un tiro sfrontato e diretto facendo della carica propositiva il suo tratto caratteristico, ma a conti fatti non aggiunge nulla a quanto sentito finora. Va meglio con “Guardians of Steel”, che prosegue nella dispensazione di metallo cromato di matrice sassone: il pezzo, pur nella sua semplicità, trasmette un buon fomento grazie alla carica anthemica e al piglio rockeggiante che fa capolino di tanto in tanto, ma forse con un paio di minutini in meno la traccia avrebbe guadagnato in impatto e fruibilità. Un arpeggio sinistro apre invece la conclusiva “Saviors of the Holy Lie”, che si dipana su riff sulfurei e minacciosi per mantenere la propria atmosfera cupa ed aprirsi a una certa solenne sacralità durante il ritornello. Il pezzo acquista pathos con l’avanzare dei minuti, mentre il suo tono inquieto ritorna a farsi sotto nel finale. Nell’edizione cd è presente, come già detto, anche una cover di “Lost Forever” dei Black Sabbath: niente da dire, lavoro svolto in modo ligio e giustamente agguerrito che rende onore all’originale.
Tirando le somme, “Crimson Messiah” è stato proprio una bella sorpresa: dopo un’ottima partenza, soffre forse di qualche flessione qua e là, ma nonostante i ripetuti rimandi (a volte fin troppo smaccati) ai grandi nomi di certo heavy metal non posso proprio non definirlo un album decisamente riuscito. Appassionato, dinamico e compatto nonostante la sua eterogeneità. Una chiusura onestissima per questo 2021 musicale, e un ascolto pressoché obbligato per i fan del metallo classico: cosa chiedere di più?