Recensione: Crisis Cult
Capita spesso. Mi trovo tra le mani dischi suonati benissimo, prodotti benissimo, impacchettati benissimo: e, allora, cosa c’è che non va? C’è che a mancare è l’ispirazione, la personalità, l’identità delle band.
I generi musicali, come tanto altro che ci circonda, hanno un ciclo vitale. Così anche l’heavy metal: i vagiti (gli anni settanta), la freschezza istintiva dell’adolescenza (nell’Inghilterra della Signora Thatcher), il piacere delle prime volte, un po’ selvagge (a metà degli anni ottanta), la maturità tracotante e le cocenti sconfitte (nei primi anni novanta), la reazione, violenta ma viva e orgogliosa dell’età adulta (a cavallo tra i due millenni) e, infine, il rifugio sicuro nelle certezze accumulate nel tempo.
Ecco, i tedeschi Voices of Destiny sono proprio così, onesti mestieranti, cloni impersonali di Epica, Within Temptation, Nightwish ed Edenbridge. Questo Crisis Cult è il loro terzo disco e non dice niente di nuovo rispetto a quanto proposto nei precedenti capitoli. Sì, alla voce Ada Flechtner (ex Coronatus, altra band inutile) è subentrata a Maike Holzmann, e le parti in growling ad opera del tastierista Lukas Palme si sono un poco indurite (restando, però, quasi sempre fuori luogo): ma il risultato non cambia. Gothic symphonic metal canonico, tastieroso, imbastardito con qualche riff vagamente metalcore. Il tutto è molto professionale e 21 Heroes potrebbe anche sembrare un buon pezzo se ascoltato a tutto volume. Ma che noia, che prevedibilità di soluzioni melodiche e arrangiamenti.
Dirò che il disco non è brutto. Mi piacerebbe dire che è bello, è fantastico: ma, onestamente, non posso. Considerate il primo pezzo, Wolfpack: una inutile somma di banalità che non è neppure lecito stroncare, ma che non incide.
Meglio certamente The Easy Prey, che almeno trova qualche soluzione dignitosa e ha un piglio abbastanza dinamico.
Oltre all’ascoltabile 21 Heroes, sono meritevoli di segnalazione Under Control, che sarà pure un outtake dei Nightwish ed è rovinata da un arrangiamento orrendo, ma non è pessima, e l’articolata The Great Hunt, dove i Voices of Destiny dimostrano di saper padroneggiare anche composizioni complesse e ricche di atmosfere diverse.
Velo pietoso sulla ballad At The Edge, imbarazzante nella propria banalità.
Ripeto quanto mi è capitato di scrivere altre volte. Il prodotto è ben confezionato e ha tutte le caratteristiche di professionalità che si richiedono a un disco. Ma non basta, non può bastare: non possiamo accontentarci di musica sufficiente e mediocre, scritta e suonata col pilota automatico da musicisti sì appassionati, ma privi di personalità e, in una parola, arte.
Siamo invasi da dischi e band di questo tipo. Sarebbe meglio avere tra le mani meno prodotti, ma di maggior qualità. I Voices of Destiny sono il tè del pomeriggio nelle tristi stanze di un ricovero per anziani: una salutare abitudine rassicurante che fa rimpiangere le merende confezionate dell’infanzia, tanto malsane quanto gioiose. Il metal merita ed è molto di più.