Recensione: Crossfire
Il nome di Marc Storace non è di certo ignoto alle cronache del rock di alto livello.
Con una carriera iniziata nel 1970 nei misconosciuti Tea, il cantante svizzero-maltese è passato alla storia con i Krokus. Una band a capo della quale ha scritto alcune pagine molto significative dell’hard rock continentale. La formula era molto semplice: uno stile diretto con una chiara devozione per i grandi Ac/Dc. Voce abrasiva ed un catalogo diviso tra pezzi veloci, mid tempo cadenzati e sprazzi blues.
Dei Krokus non abbiamo notizie da un po’. A partire dal 2021, Storace ha però inaugurato la propria carriera solista pubblicando il buon “Live and let Live“. Un disco passato per lo più inosservato, a causa della pandemia ancora incombente che aveva avvolto e cristallizzato la promozione di ogni nuova uscita.
Stipulato un deal con Frontiers, il singer ha trascorso un paio d’anni per studiare e mettere in pista un nuovo disco che potesse sapere di rilancio e ritorno effettivo.
Il risultato è “Crossfire”, un prodotto godibile che, nonostante la radice alquanto classica, riesce a suonare fresco e scorrevole nella sua interezza. La stella polare anche in versione personale, sono sempre gli Ac/Dc, con però una affinità altrettanto dichiarata con i Def Leppard. Del resto, con quella voce, sarebbe poco probabile trovare Storace impegnato in qualcosa di diverso.
Non troppo lungo e molto diretto, “Crossfire” è un ascolto che rende al meglio ad alto volume, magari nelle casse dello stereo della macchina. Non c’è molto da pensare, in effetti. Concetti chiari, formule consolidate.
Chitarre in primo piano con linee melodiche dalla forte impronta anni ottanta. Un plot che apparteneva ai Krokus e che Storace mantiene più o meno invariato anche in versione solista.
I cori che sanno tanto di Def Leppard, collegano la memoria con “High n’Dry“, il primo vero grande capitolo edito nel 1981 dalla band di Sheffield (e secondo in carriera). Con pezzi come “Rock this City“, “Let’s Get Nuts”, “Adrenaline” e “Hell Yeah” è facile trovarsi a ciondolare la testa, con la più classica air guitar di contorno.
La buona produzione dei suoni aiuta ad apprezzare un album che non vola alla ricerca di idee sofisticate ma offre tre quarti d’ora di classico e corposo hard rock.
In mezzo ad una marea infinita di proposte pretenziose che richiedono troppo “pensiero” per essere assimilate, quello di Storace è invece, il tipico prodotto “sciacqua-cervello” che funziona come un energizzante.
Magari non champagne. Ma una birra di quelle buone. Che dopo tutto, quando hai sete, è la cosa migliore del mondo.
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