Recensione: Crücial Crüe: The Studio Albums 1981-1989
Una tournée mondiale di addio (promessa non mantenuta) nel 2015, un film biografico – The Dirt, tratto dalla biografia ufficiale – che nel 2019 ha rinverdito la loro già notevole fama e la conseguente scelta di tornare sui palchi (orfani di Mick Mars) hanno garantito ai Mötley Crüe una continuità nella loro conquista di nuove generazioni di fan.
La BMG riserva ai quattro folli di Los Angeles lo stesso trattamento riservato ai concittadini Dokken: un bel boxset contenente i primi cinque album in versione limitata, formato CD e vinile 180g colorato. Anche in questo caso l’operazione non riserva alcuna sorpresa, data la totale assenza di una qualsivoglia bonus track. Ma si tratta comunque del miglior modo per iniziare ad innamorarsi di queste leggende.
Too Fast For Love è un debutto come si deve di una band come si deve: iconico, originale, memorabile, scioccante. L’autoproduzione scarna, curata dalla band stessa – con il debuttante Michael Wagener (Skid Row, Alice Cooper) al mixer – garantisce un potente impatto minimalista debitore delle suggestioni del morente punk rock. Il ventitreenne Nikki Sixx mette in chiaro sin da subito le sue indubbie capacità come songwriter, componendo per intero la pressoché totalità del disco (cosa che farà in pratica per ogni lavoro). Il suo assoluto senso per la melodia è reso evidente da brani come ‘Merry-Go-Round’ (come non scrivere una ballad scontata), ‘Starry Eyes’ e la conclusiva ‘On With the Show’. Ma non mancano pugni nello stomaco come la furiosa opener ‘Live Wire’, per la quale la band si diverte a dirigere il videoclip, ma anche la stessa title-track che col suo incedere più pacato colpisce comunque i timpani dell’ascoltatore con un feeling punk rock degno della migliore scuola inglese ma appesantito da quella a stelle e strisce. È il 1981 e i Mötley Crüe sono pronti a conquistare tutte le terre emerse…
Ho sempre ritenuto Shout At the Devil un disco molto più “pericoloso” di qualsiasi produzione black metal. I genitori dell’epoca erano a ragione preoccupati dell’effetto che avrebbe potuto avere questa musica sui loro figli: è più facile che un adolescente senta il richiamo di divertimento, sesso, droga e grande musica californiana oppure di occulti rituali consumatisi nella neve di gelide foreste scandinave? Ognuno cerchi la propria risposta, di certo stiamo parlando di un capolavoro della vera e propria musica del Diavolo. La produzione di Tom Werman (Dokken, Stryper) aiuta a creare le atmosfere nere come la pece che caratterizzano il disco, a partire dall’apocalittico anatema biblico-metropolitano intitolato ‘In the Beginning’ che introduce le chitarre taglienti della title-track e le invasate grida e invocazioni di Vince Neil. Un breve pezzo strumentale, delicato e perturbante, intitolato ‘God Bless the Children Of the Beast’ e il recupero della famigerata ‘Helter Skelter’ dei Beatles (colonna sonora ideale dei massacri della Family di Manson) confermano la seducente “pericolosità” di un lavoro che scaraventa senza pietà i Mötley Crüe nell’immaginario proibito degli adolescenti di tutto il mondo.
Con Theatre of Pain le fondamenta sulle quali poggia il monumento Mötley Crüe iniziano a vacillare (non dal punto di vista delle vendite, ovviamente). Sarà la tragedia causata dalla guida spericolata di Vince Neil, sarà la dipendenza da eroina di Nikki Sixx, saranno i dissidi interni con Mick Mars, comunque sia si tratta di un disco di enorme successo ma privo sia della potenza che della carica eversiva dei due lavori precedenti. Provate ad ascoltare le prime due canzoni di Too Fast For Love e le prime due di Shout at the Devil. Bene, ora passate a ‘City Boy Blues’ e a ‘Smoking in the Boys Room’ (cover dei Brownsville Station): non c’è dubbio, sono divertenti ma manca la tremenda botta che prima era ben presente. Fortunatamente la potenza mid-tempo di ‘Louder Than Hell’ riporta i Crüe ai fasti del disco d’esordio. La celeberrima ‘Home Sweet Home’, oltre a dimostrare che Tommy Lee ha un cuore sotto tutti i tatuaggi, spedisce la band direttamente nell’Olimpo delle ballad immortali e una volta girato lato, il disco prende una piega decisamente migliore sia in termini creativi che di aggressività, fino all’ultimo grido di battaglia ‘Fight For Your Rights’ che conclude il lavoro.
La trilogia prodotta da Tom Werman si conclude con Girls, Girls, Girls, album che riporta la band verso lidi decisamente più heavy rispetto al disco precedente. Si parte con una deflagrazione atomica intitolata ‘Wild Side’, il cui video lascia una traccia indelebile nella storia rock di MTV. Il primo lato snocciola una serie di classici che invogliano l’headbanging più sfrenato, per poi chiudere temporaneamente le danze con la delicatissima ‘Nona’, un piccolo gioiello che mette in luce le incredibili doti compositive di Nikki Sixx. Le scariche elettriche riprendono incessanti con ‘Five Years Dead’, aggressivo blues metropolitano che introduce le scariche – questa volta ormonali – di ‘All in the Name Of…’ e la violenza controllata di ‘Sumthin’ for Nuthin’. Dopo un’altra power ballad destinata a scalare le classifiche (‘You’re All I Need’) con il suo romanticismo da vicolo malfamato, i Mötley Crüe si accomiatano dai loro fan con un omaggio al Re in persona: una coinvolgente versione dal vivo di ‘Jailhouse Rock’. Per i quattro, se non vogliono morire o diventare i protagonisti del classico di Elvis, è tempo di darsi una seria ripulita.
Nel 1989 i Crüe approdano alla corte di “Re Mida” Bob Rock (Metallica, Bon Jovi) che, insieme al percorso di riabilitazione della band, inietta un’energia mai udita nei lavori precedenti, alzando paurosamente la qualità della loro proposta. Non c’è una singola virgola sbagliata in questo album, solo perfezione assoluta che lo rende una icona immortale di un genere musicale che di lì a poco avrebbe conosciuto l’agonia commerciale. Dr. Feelgood viene introdotto da un breve brano realizzato con soli suoni d’ambiente (ovviamente metropolitano) che ben contestualizzano in modo cinematografico le atmosfere raccontate dai quattro di L.A. La title-track – chi ha almeno 45 anni non può non essere stato rapito dal videoclip – ci scaraventa nel mondo caleidoscopico di uno spacciatore con riff di granito destinati all’eternità. Sorprendente il finale di ‘Slice of Your Pie’, ispirato da ‘She’s So Heavy’ di beatlesiana memoria. Sarebbe necessaria una approfondita analisi track-by-track per rendere giustizia a questo capolavoro ma non è questa la sede. Basti sapere che troverete tutto in questo disco: produzione sopraffina, melodia, potenza, racconti di vita vissuta e un’energia che a distanza di oltre trent’anni non accenna minimamente a scemare neanche dopo ripetuti ascolti.
Dunque , come nel caso del cofanetto dedicato ai Dokken, nulla di nuovo sotto il sole né sotto la luna, date le atmosfere spesso notturne emanate da questa musica. Ancora una volta un’operazione destinata a chi vuole avvicinarsi ad una band immortale con una spesa contenuta nel nome della completezza discografica, almeno della prima fase.