Recensione: Cruzh
Lo abbiamo già scritto: la Svezia ama i suoni statunitensi degli anni ottanta, soprattutto quelli della loro fase centrale.
A questo, fertile, filone si accoda anche il debutto dei Cruzh, che più revival non potrebbe essere. La musica dei tre (ai quali si aggiunge un batterista turnista) è un AOR patinato ed estremamente debitore delle atmosfere e melodie di trent’anni fa, o giù di lì. In questi casi, il rischio parodia è sempre dietro l’angolo, così come la brutta figura al confronto con chi ha fatto la storia del genere in anni in cui, va detto, era ancora posssibile farla.
I Cruzh ne escono bene, grazie soprattutto ad arrangiamenti sapientemente retro ma non per questo forzosi e a linee melodiche certo non originali ma piacevoli. Tra gli aspetti negativi del disco c’è la produzione eccessivamente levigata, che fa sembrare la musica degli svedesi sempre un po’ trattenuta da un freno a mano dimenticato in corsa.
I riferimenti sono quelli che potrete immaginare: dai primi Bon Jovi ai Def Leppard del grande successo, dai White Lion più leggeri ai sottovalutati Stage Dolls, che in ultima istanza sembrano il modello a cui i Cruzh sono più vicini.
L’apertura del disco è riservata alla bella In n’Out of Love, decisamente bonjoviana sia nel titolo che nel riff, che ricorda quello di Livin’ on a Prayer. Il pezzo ha un buon piglio e porta piacevolmente l’ascoltatore alle successive First Cruzh e Aim for the Head. Se la prima penalizza un poco la bella melodia con un arrangiamento troppo soft, Aim for the Head si candida ad essere uno dei pezzi migliori del lotto (e non a caso è stato scelto come singolo), mescolando bene un riff finalmente brioso e rock con un bel ritornello.
Ma gli anni ottanta non sarebbero stati tali senza le power ballad, i video in bianco e nero di rock band maledette e le rock star sudate e pensose nel backstage. Ed ecco Anything for You, che non è la cover dell’omonimo capolavoro dei Mr. Big, ma la classicissima ballad farcita di cori e di tutto l’armamentario ormai polveroso che ammantava siffatti pezzi in quegli anni. Anything for You non aggiunge proprio niente a quanto già sapevamo e abbiamo ripetutamente ascoltato, ma alla fine si fa ascoltare con piacere: ed è sufficiente..
Con Survive si torna al rock e il riferimento massimo diventano i Def Leppard, mentre una tastiera dal suono enormemente retro introduce la successiva Stay, un mid-tempo in vero noioso.
Con Hard to Get ecco che anche i Journey fanno capolino tra le influenze dei Cruzh, risultando in un pezzo tanto canonico quanto carino. You, invece, alimenta quella sensazione da freno a mano di cui sopra, ripetendo i canoni dell’album e risultando tediosa.
Set Me Free, invece, nonostante la regolare infarcitura di tastiere e cori, è più hard rock, forte di un bel ritornello e una strofa incalzante. Stesso discorso per la successiva Before I Walk Alone, che è molto White Lion ma alla lunga stanca.
Chiude il disco Straght from My Heart. Volevamo farci mancare il duetto tra la chitarra acustica e la voce malinconica? Eccovelo servito, con un Tony Andersson che gioca a fare il Mike Tramp fuori tempo, con un risultato discreto ma sostanzialmente trascurabile.
Chissà, fossero nati trent’anni prima e avessero trasferito il proprio quartier generale in California, forse i Cruzh avrebbero avuto anche qualche possibilità di successo. Oggi non ne hanno: e questo va a loro merito, se è vero che suonare un certo genere nel 2016 non può che essere motivato dalla pura passione per suoni che sono sì lontani, ma mai dimenticati e, pure nella ripetitività del canone, riescono sempre a trovare validi e sinceri portavoce, tra cui questi svedesi, la cui miglior invenzione è probabilmente la macchina del tempo.