Recensione: Crying Moon
«È un tempio la Natura ove viventi
pilastri a volte confuse parole
mandano fuori; la attraversa l’uomo
tra foreste di simboli dagli occhi
familiari. I profumi e i colori
e i suoni si rispondono come echi
lunghi che di lontano si confondono
in unità profonda e tenebrosa,
vasta come la notte ed il chiarore.
Esistono profumi freschi come
carni di bimbo, dolci come gli òboe,
e verdi come praterie; e degli altri
corrotti, ricchi e trionfanti, che hanno
l’espansione propria alle infinite
cose, come l’incenso, l’ambra, il muschio,
il benzoino, e cantano dei sensi
e dell’anima i lunghi rapimenti»
(Charles Baudelaire – Corrispondenze)
Charles Baudelaire forgia con tali appassionati versi la poetica del simbolismo, rapporto siamese e panteistico con la realtà nelle sue vesti succinte che rivelano a tratti le appetibili nudità dell’ignoto. Nel tempio della natura l’artista meditabondo genuflesso alla magnificenza di riflessi e azzurre chiarezze, capta significati, evocazioni, suoni, echi, per condurli mano nella mano agli uomini, nella loro segreta essenza. L’oscurità suscitata dai taciti misteri della foresta, l’assorto coricarsi tra le rive dei rigagnoli, la luna che avvolge con il tiepido corpo di lume, il gufo che ridesta, il lupo ululante sporgente dalla rupe come un reietto che richiama a sé la vita. Sono queste suggestioni particolarmente care al metal nordico, spesso di marca scandinava, lì ove il buio è una dimensione naturale con la quale convivere.
Ma oggi non parliamo di Svezia, bensì di Francia e di questo indomito personaggio, Psychotic, polistrumentista avventuratosi nell’one-man band project Psychocalypse, e giunto al suo primo full-length “Crying Moon”, un lavoro che ci catapulta nelle classiche atmosfere melodic death degli anni novanta, sguazzando tra Dark Tranquillity, In Flames, Amon Amarth, At The Gates ecc, gothic e soluzioni thrash/groove.
Bisogna premettere, che per quanto il disco risulti essere un tributo ai grandi fasti, non è affatto pedissequo e banale, ma presenta tocchi d’originalità. Innanzitutto da sottolineare la buona padronanza di Psychotic alle prese con ogni strumento, godibili sono pattern e arrangiamenti, ove il mid-tempo in particolare, privilegia l’immersione totale nell’universo introspettivo e solipsistico dell’uomo errante nelle gelide lande che tenta di ritrovarsi negli immensi spazi dell’anima.
Il disco ci accoglie inchiodandoci indosso un’incombenza astratta, una maceria di spleen nella sua accezione più profonda da condurre in spalla come Sisifo, all’intro strumentale malinconico, segue “Stray Souls”, track che cresce spontaneamente dal dolore fitto di colui cui più volte pesa una zolla sul cuore. “In The Lost Kingdom” e “Apocalodia” annientano la speranza umana, vano tentativo di squarciare una realtà asfissiante, mostratasi fugacità e caducità. Rivelazioni che uno spirito dannato non può accettare.
Il cadenzato poetare musicale di questo full fluisce ininterrotto ampliando i suddetti interessanti temi esistenziali, e lasciando sì, un leggero retrogusto d’arte, ma anche un po’ di dubbi sulla sua effettiva riuscita. Se il prologo e i brani introduttivi sono quasi ineccepibili, e immergono l’ascoltatore nei ghirigori dell’anima, nel prosieguo sembra quasi che il nostro smarrisca gradualmente l’ispirazione maledetta, fiamma danzante che si spegne al soffio improvviso. È come se Mosè avesse aperto le acque, per poi far tornare indietro il suo popolo. Una sensazione di appiattimento, monotonia, e reiterazione eccessiva delle strutture portanti e del cantato, riducono sensibilmente le pretese di questo disco. Una maggiore varietà, avrebbe forse conferito flessuosa bellezza al prodotto finale.
Il disco resta comunque fruibile e degno di lode.
Psychotic, è ideatore ed esecutore di questo viaggio nello scrigno profondo della natura, cui l’uomo naufrago approda in lacrime per vivere eterno.
Fabrizio Meo
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