Recensione: Crypt of the Devil
Cosa dire a chi, oggi come oggi, vuole approcciare ad un disco dei Six Feet Under? Nello specifico, cosa rappresenta “Crypt of the Devil” all’interno del percorso artistico della band e che contributo dà al movimento death metal internazionale?
Il disco non aggiunge nulla sotto il profilo artistico, né si prefigge l’obiettivo di farlo. Coerenza resta quindi la parola che più lo rappresenta. E non ci riferiamo solo all’evoluzione relativa alle passate produzione del progetto facente capo al cantante e fondatore Chris Barnes. Pure in relazione all’evoluzione generale del death metal. Il disco, ancora una volta, oscilla tra il tipico old school death metal di matrice statunitense (floridiano) e il death ‘goovoso’ tanto caro alle attitudini del musicista sopra citato. Fermo restando che tutto l’aspetto compositivo è stato concepito dal polistrumentista Phil “Landphil” Hall (Cannibal Corpse, Municipal Waste… ma non Six Feet Under!), il disco mette a nudo nuovamente lo stile e l’identità di questa band che mai s’è nascosta dietro un cliché anzi, da orgogliosa portabandiera, ha affrontato le costanti critiche di mediocrità e sterilità artistica che nel tempo le sono state mosse.
I Six Feet Under sono quello che suonano o, per meglio dire, sono quello che il loro frontman vuole suonare. Sono genuini, attitudinali e, a loro modo, pure caratteristici. Sicuramente possiamo affermare che, dati gli standard contemporanei del death metal, i Nostri risultano quantomeno scontati. Forse sono i più scontati tra i grandi nomi, vecchi e nuovi, attualmente in circolazione. Lato forte della loro offerta musicale resta la friuibilità. I brani, dal primo all’ultimo, sono piacevoli all’ascolto, coinvolgenti e ben prodotti. Il disco suona diretto ed ogni brano ha un’elevata carica di energia. Valevole anche il cantanto di Barnes, sempre incisivo e profondo. E questi sono i fatti oggettivi. A voi la scelta.
Per quanto mi riguarda vorrei condividere con voi un pensiero. Personalmente non adoro i progetti così strutturati. Un disco composto da un membro esterno, suonato da altri in sede live, non potrà mai essere un disco vero fino in fondo. Con un solo giocatore non si vincopno le partite, tantomeno un campionato. Certo, di stile ce n’è, di attitudine pure, ma la ‘visione’ che si cela dietro la band resta sbiadita e fragile, e tende e relegarla in fondo alla classifica di quelle concepite nel corso di quest’anno. E forse questa opacità, se cerchiamo di scrutare un po’ nel profondo, si riflette pure nella sostanza.
Nicola Furlan