Recensione: Crypts, Coffins, Corpses
Un viaggio allucinante nei sogni morbosi delle menti malate, ricchi di torture e di cadaveri, e ritorno. Questo è, in estrema sintesi, la tematica che regge l’impianto lirico di “Crypts, Coffins, Corpses”, nuovo album della brutal death metal americana Meathook. Un cammino durato sette anni, che separano l’ultimogenito dal precedente, crudele “Facing Deformity” (2012).
Detto del tema portante, non rimane che affrontare il discorso musicale che, però, si interseca costantemente con racconti aventi per oggetto cataste di spire di viscere, sale sanguinanti di templi eretti con la carne, ribollimenti in calderoni di cadaveri. Una commistione che si rende necessaria per dotare i Meathook della capacità di proporre musica dal mood cupo, oscuro, lisergico. Anche visionaria. Esemplificativa di un mondo psicotico, nel quale tutto è possibile in ordine al totale disfacimento dell’involucro fisico degli uomini. Diventati vuoti sacchi di polpa da utilizzare per gli usi più abbietti possibile.
Tutto quanto sopra dà luogo a uno stile piuttosto personale, indicativo di una formazione in grado di sapersi muovere con abilità nelle lande sanguinolente del metal estremo che più estremo non si può. Certo, la foggia musicale risponde al 100% ai dettami enciclopedici del brutal death metal, per cui è inutile cercare in “Crypts, Coffins, Corpses” qualcosa che si discosti da una ferrea ortodossia. Altresì, è inutile individuare elementi innovativi, nell’opera del quartetto di Phoenix. Tutto appare scontato nella riproposizione di cliché abbondantemente abusati dalle formazioni che praticano la medesima tipologia artistica.
E, in effetti, così è. Marcelino “Mars” Gonzales inala metri cubi d’aria per generare il suo growling inintelligibile. Growling perfetto per la bisogna, giacché lugubre, baritonale e profondo, espettorato appositamente per penetrare a fondo nelle immaginarie, fetide invenzioni di cervelli deviati. Le chitarre di Robin Mack e Aaron Gonzales sono due mostruose macchine da riff. Non esiste un attimo di tregua, nel loro lavoro teso a creare un tappeto sonoro guasto, in perenne stato di putrefazione. I loro accordi ribassati si intonano alla perfezione con le linee vocali di Gonzales, formando un malloppo assolutamente indivisibile (‘Coils of Entrails’) che, di fatto, altri non è che il sound di un ensemble ineccepibilmente coeso, compatto; che fa tutt’uno, anche, con il drumming scellerato di Johny Gonzales. Tutto bene, tutto giusto, tutto regolare. Cose già dette e ridette per altre band, però.
Così, l’impatto frontale di tutte le song è davvero implosivo nella triturazione completa delle membrane timpaniche e dell’orecchio tutto, anch’esso mero oggetto da maciullare. La nota negativa, invece, arriva dalla proposizione di song che, anche a ripetere i passaggi, appaiono troppo simili le une alle altre. In ciò non aiuta proprio il brutal death metal, per definizione genere tendente a generare complessi il cui discernimento gli uni dagli altri è praticamente impossibile. Più che un difetto, in questo caso, si tratta – come più su scritto – di una totale fedeltà a dei dettami che non ammettono deroghe, se l’obiettivo è quello di realizzare un full-length di brutal death metal… puro.
Perciò, pur rilevando anzi rimarcando la bravura dei Meathook a produrre tracce dall’evidente emotività, figlia di mortiferi e funerei sentimenti che albergano negli strati più nascosti e maligni dell’animo umano, ove vivono gli istinti più sadici e orrendi, non si può che consigliare “Crypts, Coffins, Corpses” solo ai fan del brutal death metal.
Daniele “dani66” D’Adamo