Recensione: Cuma 2016 A.D.
Come tutti i generi musicali anche il progressive italiano ha, accanto ai nomi più famosi, un discreto numero di gruppi meno conosciuti che tuttavia hanno dato un contribuito non indifferente al suo sviluppo. Nello specifico si tratta di band attive soprattutto nei primi anni Settanta, rimaste unite per un periodo piuttosto breve, e caratterizzate quindi da una discografia ridotta all’osso. Contrasti interni o mancanza della giusta attenzione da parte del pubblico hanno portato i musicisti a separarsi dopo aver pubblicato pochissimi album, probabilmente considerando quella parte della loro carriera un capitolo chiuso. Ma a volte il tempo è galantuomo e, invece di essere dimenticati, quei gruppi sono stati riscoperti qualche decennio più tardi, tanto che oggi non vengono considerati semplici “meteore”, ma artisti validi con un ruolo consolidato all’interno del panorama progressive. Il Balletto di Bronzo rientra proprio in questa categoria, avendo pubblicato due soli album tra il 1970 e il 1972, per sciogliersi appena un anno dopo. Si tratta peraltro di due dischi molto diversi: Sirio 2222 – con la band capitanata da Marco Cecioni alla voce e Lino Ajello alla chitarra – amalgama il beat e diverse anticipazioni di hard rock e space rock. Quando, però, nel 1971 arriva il giovane tastierista Gianni Leone a portare una svolta radicale nel sound, Cecioni si separa dal gruppo, lasciando a Leone anche il ruolo di cantante. Ys è quindi dovuto in larga parte al tastierista, che si getta nel lato più complesso e intellettuale del progressive, unendo suggestioni provenienti dalla musica classica e dal free jazz in un inquietante concept album ispirato a un racconto medievale francese.
Negli ultimi anni, visto anche il rinnovato interesse da parte del pubblico, c’è stato un riavvicinamento tra i membri della band, ma invece della tipica reunion abbiamo assistito a una particolare scissione: da un lato Gianni Leone ha ripreso il nome originale e continuato un’intensa attività dal vivo, dall’altro Cecioni e Ajello hanno riformato il gruppo con il moniker, quasi uguale, di “Il Balletto di Bronzo di Lino Ajello e Marco Cecioni”. E sono proprio i due membri fondatori a incidere Cuma 2016 D.C., accompagnati da Alessandro Stellano al basso, Alessandro Crescenzo e Tony Guido alle tastiere, Alfonso Mocerino e Francesco Del Prete (figlio di Franco Del Prete dei Napoli Centrale) alla batteria.
Per cominciare bisogna chiarire un primo aspetto: il nuovo album non è un disco di progressive, e non vuole esserlo; se avete in mente le atmosfere misteriose di Ys mettetele da parte, altrimenti rimarreste delusi. In quell’album del resto la mente principale era Gianni Leone, che in questo caso non fa parte della formazione ufficiale e compare solo in veste di ospite su un paio di tracce. Se proprio volessimo paragonare la nuova fatica discografica alle precedenti potremmo citare Sirio 2222, per il ritorno di Marco Cecioni, ma il confronto sarebbe comunque fuori luogo: la componente beat, essenziale nell’esordio, è ormai svanita e, più in generale, l’eredità degli anni Settanta sembra non essere determinante, nonostante si percepisca ancora.
Ci troviamo di fronte a dieci brani piuttosto radio-friendly, spesso sorretti da riff di matrice hard rock che tuttavia non risultano mai troppo spigolosi. Sta alla voce il compito di guidare i brani, di conseguenza gli altri strumenti tendono a rimanere nei confini della forma canzone, concedendosi lo spazio per qualche assolo ma senza manie di protagonismo. Il risultato è una musica diretta, che da un lato guarda alla tradizione del rock italiano, e dall’altro cerca un songwriting più moderno, senza disdegnare una vena pop che si traduce in ritornelli sempre orecchiabili e strutture lineari. In particolare ascoltando “Vorrei Essere Un Deejay”, peraltro uno dei pezzi migliori, si percepisce proprio questa voglia di tentare qualcosa di diverso, di attuale, una sorta di dance dal ritmo contenuto, che indugia sui tappeti di sintetizzatori e le voci filtrate. Molto ben riuscita anche l’opener “Da Soli”: qui le sonorità sono riconducibili a un rock più classico, incentrato soprattutto sulla chitarra, mentre l’atmosfera passa da un’introduzione sognante a un ritornello piuttosto tirato e coinvolgente. Tra i momenti migliori va ricordata infine la nuova versione di “Neve Calda”, il singolo che anticipò il disco d’esordio nel 1969.
Nel complesso potremmo definire piacevole questo nuovo lavoro, tuttavia non manca qualche nota dolente: il limite principale forse è la mancanza di un momento davvero memorabile, una melodia o un riff che emergano tra gli altri e diano una marcia in più all’album. Tutti i brani presi singolarmente funzionano abbastanza bene, eppure allo stesso tempo scorrono senza sorprese, con un’aria di già sentito. Nonostante i difetti, tuttavia, resta evidente il grande merito di Cecioni e Ajello, ossia l’essere andati oltre lo stile che ci si sarebbe aspettati da loro, senza la paura di cambiare genere. Non si avverte nessuna voglia di pubblicare un disco nostalgico o dall’aria retrò, composto magari senza troppa convinzione, solo per accontentare qualche fan. Al contrario, Cuma 2016 D.C. è un disco onesto, che trasmette la voglia di continuare a suonare e di scrivere musica, cosa che auguriamo al nuovo Balletto di Bronzo per il prossimo futuro.