Recensione: Cut
Siamo nel 1982, e sono passati ben 17 anni dal primo disco degli olandesi Golden Earring. Scalando molto lentamente le gerarchie musicali si erano imposti, con continuità, fra i maggiori esempi hard rock che l’Europa continentale avesse avuto. Dalla seconda metà degli anni 70 però, la band aveva visto la sua fama svanire piuttosto rapidamente, così come svanì in gran parte la verve dei comunque regolari dischi in studio (con qualche eccezione come “Prisoners of the Night”). In soldoni, tanto valeva comprare un best of oppure vederli sul palco. Il quartetto, accortosi di questo, capisce che è probabilmente ora di dare una nuova accelerata, e lo fa virando abbastanza nettamente il suo stile musicale. Cut è forse proprio il primissimo esempio di questa sterzata, che riuscirà a far tornare il gruppo a buoni livelli di popolarità (soprattutto anche grazie al singolo “Twilight Zone”, nella top ten di Billboard). Musicalmente si notano subito le differenze con gli album “storici” degli orecchini. Quasi tutte le influenze che avevano caratterizzato gli album settantiani vengono infatti abbandonate per una sound molto più moderno, hard e decisamente volto al pubblico. In sostanza diciamo pure che fu un antenato dei dischi U.S.A. di fine anni 80 (non a caso diverse band “cromate” hanno coverizzato i Golden Earring), con quasi il medesimo effetto sugli ascoltatori. Tutti questi fattori non devono però mettere in cattiva luce il prodotto (per la cronaca ventiduesima (!!) uscita della band), che è veramente ottimo (forse l’ultimo a certi livelli per il quartetto). Tutti eseguono benissimo, e con tanta, tanta, classe, la parte a loro assegnata, da Zuiderwijk a Kooymans, passando ovviamente per Gerritsen e Hay. Questo cambio d’aria lo si nota subito dall’opener, la frizzante e fresca (ma attenzione, fresca se ascoltata ancora oggi!) “The Devil made me do It”, un concentrato di pacata esplosività. Subito in evidenza il sublime lavoro di basso (ma in fondo Gerritsen è sempre stato uno dei più pirotecnici bassisti in circolazione), che porta decisamente, assieme a un allegro strimpellare di 6 corde, in un pianeta dove la giovialità la fa da padrona. Difficile trovare un punto debole in questa song, ricca anche di cambi di tonalità. Tutto è ben impostato, dalle trombe presenti nel ritornello all’uso della doppia voce, che compensano la mancanza di un vero e proprio assolo. Decisamente nuova anche la seconda “Future”, che attacca su un bello e pacato riffing di chitarra, motivo trainante della prima parte della song. Stranissimo il pre-refrain, con la voce quasi in sottofondo, ad introdurre l’esplosione che viene immediatamente dopo. Non saprei come definire il tutto se non col termine magnetico. Decisamente oscura ma subito velata di più di un’ombra di romanticismo la seguente, lenta “Baby Dynamite”. Non la chiamerei esattamente ballad (nel senso di canzone d’amore), visto che musicalmente non richiama questo stilema, eppure il messaggio arriva forte e chiaro, complice una curiosa ma eccellente interpretazione da parte del vocalist. Ritorno al selvaggio con la appena sufficiente “Last of the Mohicans”, forse è la peggior canzone sentita finora, nel complesso. Last alterna infatti tratti decisamente “up”, quali ritornello e basso portante ad altri di stanca, che a volte invogliano lo skip della traccia. Non male invece l’attacco a “Lost and Found”, probabilmente uno dei migliori brani del platter, almeno in chiave melodica. Qui i vari passaggi sono davvero eccellenti, per quanto semplici, ed evidenziano un gusto decisamente non comune. Un po’ meno bello e forse banale il ritornello, ma nel complesso questa song lascia davvero soddisfatti, a patto di amare le sonorità su cui Cut è impostato. Ed eccoci alla già citata “Twilight Zone”, un must assoluto nella carriera degli Earring. Una ritmica imbarazzante per come riesce a prendermi senza colpo ferire, passaggi semplicemente elementari ma tremendamente efficaci, un ritornello straordinario : questi sono gli ingredienti principali per una traccia che vedo al pari di Rarar Love e poche altre come una vera e propria bandiera per il gruppo (sentita dal vivo è spettacolare). Dopo questa sferazata di energia, arriva una song dal titolo che non ha bisogno di commenti, ma che può anche ingannare, “Chargin’ Up my batteries”. L’introduzione è splendida, un grande arpeggio di chitarra, ma al contrario di quanto potrebbe dire il titolo non siano di fronte a una sfuriata sonora, bensì a un pezzo abbastanza lento, eppure magico. L’interpretazione del singer (o dei singer, a volte) è ottima, così come la batteria (a volte volutamente in controtempo), e contribuisce a rendere Chargin’ (così come i cambi di tempo, non netti ma comunque molto udibili) una quasi hit, anche se certamente a livello inferiore rispetto al precedente componimento. Non mancano le pecche, come si può ben capire durante l’ascolto, ma comunque siamo su ottimi livelli, così come si mantiene bene anche la closer “Secrets”, un mid tempo che riassume tutta l’essenza del disco, così come dovrebbe fare ogni degna closer. Beh, l’ennesimo ascolto è finito. Certo, molti potrebbero storcere il naso, soprattutto i classicisti e chi ama la violenza musicale (ma a costoro credo difficilmente piaccia ascoltare qualunque album di Hay e compagni), eppure Cut secondo il mio parere rimane disco degno di nota, forse l’ultima grande produzione dei Golden Earring, band che anche ora come allora è quasi dimenticata, sicuramente in modo piuttosto ingiusto.
Riccardo “Abbadon” Mezzera
Tracklist :
1) The devil made me do it
2) Future
3) Baby Dynamite
4) Last of the Mohicans
5) Lost and Found
6) Twilight Zone
7) Chargin’ up my batteries
8) Secrets