Recensione: Cycle of Suffering
I Sylosis sono una di quelle band che, nonostante gli svariati cambi di line-up, possono vantare uno stabile percorso nell’universo death/metalcore internazionale. Nati nel 2000 a Reading, nel Regno Unito, si sono pian piano fatti strada nella fiorente scena metal di quegli anni di fianco a colossi come gli As I Lay Dying, Killswitch Engage e Lamb Of God. Questo “Cycle of Suffering” in particolare è un’opera importante per il vissuto della band: nel 2017 infatti il frontman Josh Middleton si è unito stabilmente agli Architects come chitarrista e questo aveva inizialmente preoccupato i fan sulla tenuta del gruppo. In realtà, dopo cinque anni dall’ultimo “Dormant Heart”, i Sylosis tornano con un’opera degna della loro reputazione, ribandendo con forza la solidità del progetto.
Se dovessimo scegliere una band a rappresentare il sound metalcore degli anni 2000, quello più estremo e non diluito dalle varie influenze nu/emo di quel periodo, ecco, i Sylosis sarebbero degli ottimi candidati.
Il loro stile è solido, veloce e oscuro, in un mix di influenze che vanno dal trash al progressive più epico, toccando qua e là momenti più melodici, ma sempre accompagnati da un bel growl possente. “Cycle of Suffering” rispecchia in pieno questa descrizione: 12 canzoni per 50 minuti di metalcore ben strutturato, tecnico e incazzato. Partendo da ‘Empty Prohpets’, passando per il singolo ‘I Sever’ e arrivando all’ultima, più melodica ‘Abandon’, questo disco scorre veloce e senza intoppi, dimostrando tutta l’esperienza di una band che è sulla scena da vent’anni, sa esattamente cosa vuole e come ottenerlo.
Ma nonostante tutta questa perfezione tecnica e stilistica, c’è un ma. Durante l’ascolto, io che scrivo non mi ero accorta che il disco era finito e Spotify continuava a propormi canzoni di gruppi dello stesso universo; per più di mezzo’ora ho creduto di ascoltare i Sylosis e invece era altro. Ora, ci sono due prospettive sull’accaduto, entrambe valide. Prima: questo è uno di quei gruppi che ha fatto scuola, forgiando un genere e ispirando molti altri a venire; e questo è indubbio. Seconda prospettiva: “Cycle of Suffering” è un album sì perfetto per i fan del metalcore, godibile e che rispetta tutti i canoni; ma questo rispettare i canoni lo limita in qualche modo, rendendolo molto simile a molti altri, senza emergere in modo distintivo.
Quale dei due punti di vista sia il più vero, lo sceglie chi ascolta.