Recensione: Cycles of Pain
Non è mai facile recensire un disco di una band come gli Angra. Se da una parte si è consci di avere tra le mani il prodotto di un gruppo di musicisti di altissimo livello, colti, poliedrici e duttili, dall’altra affiora l’ovvia nostalgia dei tempi che furono, la speranza di evitare una delusione e, infine, quell’aspetto romantico che ogni band di vecchia data fa scaturire nel cuore di un ascoltatore, che ha passato l’adolescenza a riempirsi le orecchie con le sonorità di Angel’s Cry, Holy Land e via dicendo.
Siamo alla cosiddetta “terza generazione” per i nostri brasiliani. Come qualcuno ha detto, gli Angra ormai non sono più una band in senso stretto ma un “progetto”. Forse è vero, forse no (ma non vedo quale sia il problema, visto che anche un gruppo come gli Avantasia sono un progetto, ma ciò non toglie nulla alla grandezza dei loro prodotti).
Onestamente, ero speranzoso di trovarmi di fronte a un disco come “Secret Garden” perché, a mio avviso, quello era il culmine riassuntivo di una carriera trentennale, dove la maturità del combo carioca si mostrava prepotentemente, carica di raffinatezza e pregna d’ispirazione (so già che qualcuno storcerà il naso). Così non è stato, perché una delle cose che emergono dall’ascolto del platter è la mancanza, appunto, di quell’ispirazione folgorante, di quella vena compositiva che fa dire a chi ascolta: “Ma come hanno fatto a partorire una simile idea?”.
Siamo davanti sicuramente a un qualcosa di qualitativamente ottimo, con dei brani omogenei e senza sbavature, ma mancante di quella scintilla che dona longevità a un prodotto musicale, come se ci fosse una sorta di paura a varcare certi limiti compositivi e come se la composizione stessa si trovasse in prossimità di sonore colonne d’Ercole.
Cycles of Pain, come annuncia il titolo, è un disco incentrato sulla sofferenza ma non solo. Parla anche di rapporti che si stringono proprio per superare quei patimenti, parla dell’essenza stessa della vita che si serve del dolore come mezzo catartico.
Le dodici tracce si muovono attraverso intricati sentieri dove ogni sentimento umano è spremuto fino all’osso: la rabbia, la malinconia, la passione e l’amore.
L’opera apre con “Cyclus Doloris” una intro di cori polifonici e orchestra che lancia alla successiva “Ride Into the Storm”, un brano schiettamente power metal, pieno di carica, come se fosse l’attacco di un guerriero contro, appunto, la tempesta, e con un intermezzo progressive. Da lodare l’interpretazione del nostro Fabio Lione, che esprime una rabbia e una violenza davvero poche volte sentite prima dall’ugola del cantante toscano. “Dead Man on Display” porta con sé sonorità gotiche oltre a quelle classiche del power. La successiva “Tides of Changes”, divisa in due parti, la prima con uno splendido arpeggio di basso e la seconda (che vede, come ospite, la cantante e compositrice Vanessa Moreno) farcita con un progressive chiaramente ispirato ai Dream Theater, è un brano quasi rock, che richiama delicatamente anche atmosfere dei vecchi Queensrÿche, con un orecchiabile refrain di largo respiro. “Vida Seca”, la cui prima parte è cantata dall’artista Lenine, è un brano dall’intenso sapore brasiliano che sfocia, succesivamente, in un mondo più pesante e più oscuro, malinconico e drammatico. “Gods of the World” ci porta a un heavy metal arricchito da tempi dispari che ben si fondono con il brano dai tratti fondamentalmente canonici. La title track, “Cycles of Pain”, dallo squisito basso fretless nella prima parte, che segue la voce di Lione come per rincorrerla, è una ballata sofferta e intimistica.
In “Faithless Sanctuary”, ritornano i ritmi brasiliani, mischiati a un sapore orientaleggiante che strizza l’occhio, ancora una volta, a un progressive Dream Theater-oriented. Anche qui, la voce del cantante nostrano merita una lode per l’interpretazione variegata e mai banale. Torna, come ospite, Valeria Moreno in “Here in the Now”, brano mid-tempo con vaghe sfumature che ricordano Steven Wilson e i suoi Porcupine Tree. Con “Generation Warriors” torniamo al power più classico.
Infine, “Tears of Blood”, con Juliana D’Agostini al piano e Amanda Somerville (la quale, di certo, non ha bisogno di presentazioni), è un pezzo che a qualcuno ricorderà i Trans-Siberian Orchestra, molto melodrammatico e costruito in stile opera rock, dove il nostro buon Fabio Lione affronta il registro lirico con risultati direi ottimali.
Insomma, “Cycles of Pain” è, come già detto, un album complesso e ben riuscito, scritto decisamente bene ma, torno a ripetere, mancante di quel “genio” a cui ci hanno abituati gli Angra. Sicuramente, il disco necessita di vari ascolti che ci faranno apprezzare i dettagli preziosi di cui consta ma, alla fine, ne usciremo con una sorta di amaro in bocca, e con la sensazione che manchi qualcosa che speravamo di scovare ma che non siamo riusciti a percepire…