Recensione: Cyclical Shift
Il progetto Arka nasce dal volere del compositore Alberto Della Fornace, musicista eclettico dotato d’indubbia inventiva. Già membro del quartetto Lacrimae, gruppo pesarese fautore di raffinato progressive strumentale, Alberto si separa dallo specialista delle ritmiche Emmanuel Menchetti e in un paio d’anni, forte della sua versatilità polistrumentista, crea gli Arka.
Le radici nel sound epico dei Lacrimae sono palesi già a partire dall’artwork metafisico, con un lacerto di volto umano, dove si scorge una “furtiva lacrima”, e che richiama, per via di suggestione, l’arte del recentemente scomparso Igor Mitoraj.
Il concetto portante dell’album è definito dal titolo: un mutamento ciclico e incessante anima i quaranta minuti del full-length che vive di continui cambi di dinamiche, arrangiamenti e atmosfere.
L’inizio è futuristico e suggestivo: l’opener “Adamàh Codex” è, infatti, un brano graffiante, con andamento cadenzato e soundscape robotici disturbanti. La componente metal è ben distinguibile e dialoga sapientemente con gl’intrecci di sintetizzatore, senza per questo peccare di cerebralismo.
L’aura di arcano e mistero presente nell’opener, è riproposta e sostanzia la seguente “Ancient Prophecies”, traccia del titolo evocativo, che sposa soluzioni progressive vicine a certi Fates Warning. Anima del brano resta l’alternanza tra momenti rocciosi e schiarite eteree, merito di tastiere dalle voces humanae che danno personalità ed eclettismo al pezzo (ottimo il synth d’arpa). A metà brano compare un bello stacco di basso, cui seguono alcune liriche cantate su registri angelici: «Remember the promise of the ancient gods / one day they will come back to collect their seeds / open your eyes, open your mind / you have the chance to believe or to inquire. / What is the story written inside you / go to look for.»
Dopo una coda in pianissimo, “The Battle of Fiery Thrones” attacca con pianoforte e flauto traverso; alla metà del secondo minuto i ritmi tornano sostenuti, con anche synth di organo, che ritroviamo nei primi secondi di “The Ark of Glory”, brano che ricorda da vicino i Pär Lindh Project per le tinte goticheggianti e solenni.
“Planned Destruction” accoglie l’ascoltatore con una calda voce femminile che recita a mo’ d’ispirata sacerdotessa: «I called your name / and you’ve raised / like a diamond from the stone / the light shone on you / my face. / Now it’s gone / your hands hold only / grains of sand / my tears / cannot save you more.» Suggestioni criptiche e musica progressive: ottimo connubio, peccato per una certa ripetitività: a metà platter ci voleva qualche trovata migliore per non scadere in una pur passabile prevedibilità..
Finita la distruzione è la volta di una rinascita: “System Rebirth”, traccia più lunga in scaletta, presenta ritmi a tratti più compassati e ripropone dialoghi/duelli tra tastiera e chitarra, quasi stessimo ascoltando Enter by the Twelfth Gate di Michael Pinnella.
Synth di violoncello e timpani in apertura di “My Faulty Humanity”. Un’eco muliebre scandisce con solennità: «There’s no way to change your being / there’s no way to stop your fall / come to me my humanity / all your faults will be retrieved. / Come, come, Come to me. Come!» Un’interpellazione divina che dà avvio a una cavalcata prog. metal quadrata e grintosa.
Siamo in dirittura d’arrivo. “The Mysterious Lines of Time” e “Through the Space” sono due pezzi passabili, con drumwork composito, ma non aggiungono nulla alla bontà dei precedenti brani. Convince la nota dolente dei violoncelli, l’apporto mesto del basso. Da segnalare la parte centrale di “Through the Space”, degna dei migliori Ayreon visionari, dove ritorna il syth d’arpa. Da ultimo troviamo un outro raffinato sulla cui effimera ragion d’essere sorge più d’un dubbio.
In definitiva Cyclical Shift è un album strumentale stimolante, giocato sul leitmotiv del cambiamento ciclico, tanto nella vita quanto nell’arte. La pomposità e la varietà dei sintetizzatori conferiscono longevità al disco, che, però, non è esente da qualche lungaggine e ripetitività. Detto questo, siamo di fronte a un disco ben prodotto, curato e consigliato agli amanti del progressive, italiano e non solo.
Roberto Gelmi (sc. Rhadamanthys)