Recensione: Da’at
Il black metal, nelle sue varie forme ed evoluzioni, non è estraneo al Bel Paese, che nel corso degli anni ha sfornato una buona quantità di gruppi di un certo livello devotamente fedeli al verbo nero; di questa legione oscura fanno parte anche i marchigiani Necandi Homines, attivi già da una decina d’anni ma giunti solo ora, dopo un demo omonimo, al tanto atteso debutto discografico. “Da’at”, questo il titolo dell’album, si pone fin da subito come un album intenso e interessante, lontano dai vecchi canoni e, pur senza rinnegare nulla, vicino alle sperimentazioni più psichedeliche di certi gruppi avanguardisti. La materia prima su cui si sviluppa la proposta dei nostri è un black metal lentissimo, malinconico e disperato, fatto di pennellate rapide e fuggevoli, ma il tutto viene ritorto, disgregato e amalgamato con pesanti inserti progressive e ambient fino a dar vita ad un prodotto che ha nell’incedere ipnotico e nell’alto tasso di straniamento e alienazione i suoi tratti principali; atmosfere inquietanti e oniriche permeano fluidamente tutto l’album, dilatandosi languidamente tra percussioni ora sensuali e ora violente; arpeggi malinconici si caricano di colpo di disperata aggressività per supportare la doppia voce, che spazia da tetre nenie a spasmi lancinanti, prima di ritorcersi su se stessi in un continuo girotondo di melodie malate e spiraliformi. Basterebbe la prima traccia, “Memento”, per capire che si sta per ascoltare un album diverso dal solito: otto minuti di melodie ipnotiche ed ovattate, riverberate come se provenissero da inusitate profondità marine o da dimensioni spaziali insensatamente lontane e disturbate dal tipico ticchettio delle puntine su un disco, su cui si innestano le due voci (anche se la parte del leone la fa la suadente voce femminile, autentica sirena ammaliatrice con quel pizzico di vampirismo latente che non guasta mai) a donare la punta di inquietudine finale, in un italiano cantilenante e lugubre, per consentire all’ascoltatore di entrare in un mondo di angoscia e sentimenti malsani. Sul finale del brano ci si aspetta un climax che conduca, nella traccia successiva, all’esplosione definitiva col classico black metal crudele e tagliente, e invece niente da fare: il brano si sgonfia pian piano, sfumando nel silenzio interrotto solo dal suono disturbante delle puntine sul vinile che ci traghetta alla seguente “The Faceless Sculpture”, caratterizzata anch’essa da un inizio lento, soffuso e velatamente inquieto. L’ingresso in scena del comparto metallico si fa attendere 2 minuti e 40 secondi, quando lo scream della voce maschile lacera l’inquietudine creatasi sorretto da chitarre lente e disperate; qualche breve accenno di voce pulita si scorge in lontananza, sommersa da riff insistenti ma lamentosi, inesorabili nella loro densa ripetitività. Le pennellate della chitarra si fanno via via più scandite, regolari, salvo poi interrompersi di colpo per lasciare un silenzio che pian piano si scioglie in una melodia soffusa in sottofondo, interrotta da un’interferenza sempre più pressante che traghetta a “The Fifth Dimension”, introdotta da un arpeggio falsamente rilassato. La traccia è una strumentale di quattro minuti scarsi, dalle melodie dilatate e soffuse permeate di un velato senso di attesa garantito dalle distorsioni del basso, che pur non raggiungendo le vette delle due che l’hanno preceduta funge da ideale momento di pausa senza spezzare troppo la tensione in vista di “Desolation of the Ocean After the Storm”, il cui incipit rilassato e disteso crea un falso senso di fluttuante pace nell’ascoltatore. L’idillio dura meno di un minuto e mezzo, e cioè quanto basta alle chitarre per iniziare a tessere il loro tappeto di riff gelidi e raglianti, sorrette da una voce raschiante e cavernosa che ci accompagna fino alla lenta dissoluzione sonora del finale, che apre alla conclusiva “Through Deep Waters”. Qui si prosegue il discorso iniziato con le due tracce precedenti ma lo si dilata a dismisura (la traccia dura 17 minuti), con giri di chitarra ingannevolmente rilassati e dall’andamento ipnotico che si sovrappongono a una voce lacerante e a rapide sferzate dal retrogusto nerissimo. La composizione si sviluppa lentamente, insinuandosi pian piano nel loop di arpeggi e dissonanze, salvo tornare al punto di partenza cambiando completamente tono, abbandonando la disperazione per dedicarsi ad una certa rassegnata tranquillità, scandita da scelte musicali più distese e l’arrivo di voci pulite, prima maschili e poi femminili, che riverberano l’atmosfera crepuscolare di certi Opeth del passato. Di nuovo, le dissonanze lacerano la quiete apparente in cui il gruppo sembrava essersi adagiato, scrosciando sulle ipnotiche melodie create dai nostri con una nuova pioggia di schegge di rabbia impotente che ci accompagna fino al finale sfumato di un album veramente notevole.
Terminato l’ascolto di questo “Da’at” non posso che dirmi soddisfatto. Certo, nell’ambito del black sperimentale non aggiunge granché a quanto già sentito più volte, ma la solidità della proposta dei nostri marchigiani, l’apparente semplicità con cui costruiscono atmosfere intricate, plumbee e opprimenti senza necessariamente cedere alla violenza sonora fine a se stessa e soprattutto il gusto che dimostrano nel dosare ogni singolo elemento che compone il loro viaggio nell’introspezione più nera mi permettono di dire che ci troviamo dinnanzi a un esordio coi fiocchi, un gioiellino superbamente bilanciato e giustamente angosciante. Promossi, e non solo: da tenere sicuramente d’occhio per il futuro.