Recensione: Daggers

Di Stefano Burini - 28 Settembre 2013 - 15:35
Daggers
Band: The Defiled
Etichetta:
Genere: Metalcore 
Anno: 2013
Nazione:
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70


Nascono nel 2005, i britannici The Defiled, ma per il debutto sulla lunga distanza hanno dovuto attendere il 2011, anno di uscita del primogenito “Grave Times”. A dispetto delle “nobili” origini, quella Londra che ha dato i natali a colossi del rock classico come Jimmy Page, Roger Daltrey, Pete Townsend, David Bowie e mille altri, il variopinto quintetto propone musica decisamente più pesante, sbarazzina, modaiola e “bastarda”. Sì, perché ascoltando le undici canzoni che compongono il nuovissimo “Daggers”, si può davvero trovare un po’ di tutto quanto vada per la maggiore in campo metal da una decina d’anni a questa parte: dal post thrash al melodic death fino all’industrial e all’hard/metalcore, passando persino per il djent.
 
A dispetto di tutte le influenze citate, ad ogni modo, la tracklist è piuttosto omogenea e in tutte le undici tracce proposte, tutte piuttosto brevi e dirette, troviamo una miscela di post thrash e melodic death/metalcore che solo in alcuni casi travalica i confini del cosiddetto “metal meshugghiano”. Alla succitata violenza del comparto strumentale (in questo disco più compatta e insistita che in altri lavori del genere) si contrappongono, come da programma, gli ormai immancabili refrain in voce pulita, di qualità per la verità altalenante.
 
La miscela funziona laddove le chitarre di Aaron Curse e Stitch D partoriscono riff granitici e il tamarrissimo cantante riesce a contrapporre delle efficaci scream vocals coronate da ritornelli di qualità, mentre scricchiola, viceversa, allorché l’intensità di chitarre, basso e batteria scema, lasciando spazio a parti canore insipide e a tastiere coatte. Della prima categoria fanno certamente parte l’opener “Sleeper” e la successiva “Unspoken”, tra le migliori dell’album in virtù del buon equilibrio tra le componenti del sound dei The Defiled e di due ritornelli clean piuttosto ben riusciti. La n.3 “Saints And Sinners” sconfina verso il deathcore, proponendo le strofe e i groove di batteria più pesanti e incazzosi di tutto l’album e una linea vocale, questa volta, solo discreta. “As I Drown” guarda , al contrario, al death melodico più “levigato” degli ultimi e penultimi Soilwork denunciando, tuttavia, una grande differenza in termini qualitativi tra maestri e allievi, per quanto devoti.
 
Si risale con “Porcelain”, ritmata, djenty e squarciata da un refrain ricercato a metà strada tra Soilwork e Periphery e con la fredda e cibernetica “New Approach”, mentre “Fragments Of Hope” è “solo” buona, seppur inquinata da tastiere invadenti. Tastiere che oltrepassano decisamente il limite nel caso della coattissima “Infected”, un tentativo decisamente malriuscito di conferire, alla musica gelida e industrialoide dei londinesi, un coté “ballabile”. Il risultato? Un metal da balera in grado di giocarsela quasi alla pari con certa dance germanica di dubbio gusto. 
 
Parte la bella “The Mourning After” e non pare nemmeno di sentire la stessa band di “Infected”: la sezione strumentale si fa rarefatta e le vocals straniante e stratificate; c’è un che di Devin Townsend e il ritornello, seppur ultramelodico, vince e convince, aiutando a dar vita al miglior brano di “Daggers”. Chiudono come non ci s’aspetta l’elettronicacustica (sì, avete letto bene, ndJ), “Five Minutes”, impronosticabilmente riuscita e aggraziata, e la conclusiva “No Place Like Home”, sostanzialmente melodic death/metalcore di buona riuscita con un surplus di tastiere sintetiche ancora una volta un po’ fuori fuoco.
 
L’album è, in una parola, discreto, con alcune punte di buono/ottimo livello (“The Mourning After”, “Unspoken”, “Sleeper”, “Five Minutes” e “Porcelain”), alcuni brani di media riuscita (“New Approach”, “Saints And Sinners”, “Fragments Of Hope” e “No Place Like Home”) e un paio di cadute di stile (“As I Drown” e l’orrida “Infected”) che, insieme alla produzione (tutt’altro che d’eccellenza, nonostante i grossi nomi coinvolti), inficiano la valutazione finale. La band ha dalla sua il talento, l’ancor giovane età e la poca esperienza, ma forse per ottenere qualche riscontro in più sarebbe il caso di concentrarsi sul “cosa fare” e sul farlo meglio, lasciando da parte esperimenti decisamente fuori dalle proprie corde.

Stefano Burini

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