Recensione: Damnatio Aeterna

Di Stefano Usardi - 10 Marzo 2025 - 10:00
Damnatio Aeterna
Etichetta: Scarlet Records
Genere: Heavy 
Anno: 2025
Nazione:
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72

A tre anni da “Mater Larvarum” tornano i Deathless Legacy con questo “Damnatio Aeterna”, fresco fresco di pubblicazione. Era da un po’ che non incrociavo la strada col gruppo toscano: per la precisione da quel “Dance with Devils” del 2017 che, devo dire, non mi era affatto dispiaciuto, e mi fa piacere constatare come in questi anni il gruppo abbia mantenuto alcune delle sue caratteristiche principali affilando, invece, qualche altro aspetto della propria ricetta. I nostri, forse lo saprete, nascono come tribute band dei Death SS, svincolandosi gradualmente dai propri maestri per sfumare in un heavy sinfonico piuttosto enfatico, guarnito dalla voce – qui meno ruvida del solito – di Steva e punteggiato dalle incursioni dell’organo che rievoca certe colonne sonore del passato. In “Damnatio Aeterna” la proposta del gruppo si fa levigata, sostituendo l’impeto orrifico e caciarone del passato con una miscela più sofisticata ma anche più convenzionale. L’amalgama così creato, pur perdendo un po’ di genuinità, risulta però perfetto per raccontare la storia del demone Malchrum, sfidato da Lucifero a corrompere un prete condannandolo così alla dannazione eterna. Una storia di corruzione e seduzione, quindi, che serpeggia per le undici tracce di “Damnatio Aeterna” in un percorso a spirale organico ma tutt’altro che monotono. Nonostante una durata non proprio accessibilissima, il settimo lavoro dei Deathless Legacy aggira i pericoli di un’eccessiva ripetitività punteggiano le varie tracce con accenti e profumi diversi, che caratterizzano ognuna di esse pur mantenendo un piglio coerente nella lunga distanza.

Si parte subito roboanti con la title track, introdotta da un coro possente che cede spazio a una melodia sulfurea e luciferina, tema portante della traccia che si rimpalla le luci della ribalta con la voce di Steva, la quale alterna toni ruvidi a qualche scheggia più solare, e un comparto tastieristico che si dimostrerà in grande spolvero per tutto l’album. La chitarra maligna che apre “Miserere” recupera certe atmosfere oscure e le carica di steroidi, confezionando un altro pezzo robusto addolcito da una voce dolente e un ritornello sinuoso ma, forse, poco ficcante. Anche qui la seconda parte del pezzo impenna il tasso di enfasi, fornendo un retrogusto cinematografico inquieto alle sue ritmiche rocciose. Il vero affondo arriva con “Get on your Knees”, traccia languida e sensuale in cui Steva passa ad un registro seduttivo e insinuante che sembra fatta apposta per accompagnare un oscuro spettacolo di burlesque. L’intermezzo strumentale arriva giusto in tempo per aggiungere al pezzo una nota acida che funge da ciliegina sulla torta. L’intro liturgica di “Communion” apre un pezzo scandito in cui l’enfasi suadente ed arcigna dei nostri esplode in melodie più luminose, guarnite però da un ritornello che non rende del tutto giustizia al bel lavoro strumentale fatto. “Indulgentia Plenaria”, introdotta da tastiere inquiete, torna a un heavy quadrato in cui maestà, turbamento e pennellate più graffianti si mescolano per confezionare un pezzo d’ampio respiro, in cui il suono dell’organo insinua la giusta nota di pericolo. Si arriva ora a “Oblivion”, in cui i nostri proseguono col discorso della traccia precedente introducendo qualche sferzata gelida delle chitarre e drappeggi sinistri che, però, vengono controbilanciati da melodie meno incisive. “Spiritus Sanctus Diabolicus” si distende su un tappeto ritmico scandito, sfruttando melodie inquiete tessute dall’organo punteggiandole, però, di qualche tocco più sognante. Purtroppo, a mio avviso il pezzo scopre il fianco durante il ritornello, cupo e cafoncello al punto giusto ma un po’ troppo ripetitivo. Con “Sanctified” si cambia direzione, tingendo le melodie di un tepore romantico, crepuscolare, impreziosito dagli innesti di organo in odor di anni ’70 che donano un respiro d’altri tempi al pathos dei toscani, mentre con l’arpeggio di “Mother of God” si torna sull’attenti. Il pezzo torna a snocciolare un po’ dell’antica arroganza grazie ad un fare più sfrontato di Steva durante la strofa, che cede poi il passo alla possanza del ritornello confezionando una traccia che, pur essendo abbastanza prevedibile, ha il merito di metterci più carisma. I ritmi si alzano con “Nightshade”, in cui i nostri mescolano melodie riecheggianti certa darkwave d’annata con un approccio più moderno, fondendo molto bene romanticismo e carica propulsiva. Il compito di chiudere il sipario su “Damnatio Aeterna” spetta all’articolata “Gehenna”, che dopo un’apertura incombente e sottaciuta prosegue serpeggiando tra profumi seducenti, atmosfere luciferine e sollecitazioni sinistre. La narrazione alterna passaggi dimessi, melodie nervose e riff corpacciuti, mentre i cori aggiungono enfasi scandendo gli umori diversi della traccia fino al climax conclusivo, stentoreo e possente, che chiude più che degnamente un lavoro solido e ben costruito.

Damnatio Aeterna”, seppur non privo di qualche piccola sbavatura, conferma le qualità del combo toscano come una solida realtà del panorama metal più oscuro e teatrale, e riesce in aggiunta a piazzare qualche bella zampata nel momento in cui imbastardisce una formula ben codificata con elementi meno convenzionali.

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