Recensione: Damnation
Eccoci qui, a pochi mesi di distanza dal precedente Deliverance a parlare della nuova fatica degli Opeth, cioè l’album intitolato Damnation.
Un disco che ancora prima che uscisse aveva già fatto molto parlare di se e fatto fare molte supposizioni, alcune rivelatisi esatte, altre del tutto fuorvianti. Per mettere subito le cose in chiaro forse è meglio dir subito che questo album ha ben poco di metal al contrario dei suoi precedenti.
I particolari che colpiscono maggiormente e a un primo ascolto sono fondamentalmente due, il primo è che l’album è cantato interamente in voce pulita, il caratteristico growl di Akerfeld non compare proprio nel disco neanche in passaggi minimi.
L’altro particolare è che si tratta di un disco che potremmo definire acustico, i brani sono tutti pezzi lenti in cui le chitarre distorte sono bandite, per chi avesse tutti gli album della band o anche solo il precedente Deliverance, questo disco presenta 8 tracce che paiono come una evoluzione di quegli stacchi lenti con chitarra acustica che già si era imparato ad apprezzare nei lavori degli Opeth.
Un altra caratteristica di questo album è che i brani sono mediamente più corti rispetto alle composizioni di anche più di 10 minuti un po’ classiche della band, in questo disco i brani di aggirano tutti in media sui 5 minuti con le dovute eccezzioni come la prima traccia di 7.43 minuti e la sesta di tre minuti e mezzo.
A un ascolto poi più approfondito si notano molte altre cose, sicuramente che la fonte d’ispirazione principale per questo album non possono che essere stati i Pink Floyd, da sempre uno dei gruppi preferiti di Akerfeld che sembra quasi con questo album abbia voluto tributargli il suo ringraziamento. Ovviamente questo disco è tutta farina del sacco degli Opeth, come non ci si può aspettare altrimenti da una band che da anni sforna capolavori uno dietro l’altro senza seosta e senza mostrare mai la corda.
Alcune citazioni sono nettamente riscontrabili lungo tutta la durata dal cd, in primis nel suono della chitarra “alla Gilmour”, ma sicuramente l’atmosfera che si respira ascoltandolo non è certo quella di un album dei Pink Floyd, in questo album è la tristezza a farla da padrone e un’aria di oppressione e cupezza. Temi questi che non erano del tutto congeniali alla band inglese che prediligeva atmosfere lisergiche e suite più ariose, caratteristiche queste che l’hanno portata a divenire l’ideale colonna sonora degli acidi di più di una generazione.
Un’altra piccola sorpresa la riserva la settima traccia “Ending Credits”, con questo brano si può notare a mio avviso la variegata ampiezza delle ispirazioni della band perchè ci restituisce lo stesso gusto dei migliori Santana dei tempi di Abraxas.
In conclusione sicuramente un disco da avere, come secondo me probabilmente tutti gli album di questa band eccezzionale, ma che potrebbe far sorgere a qualcuno qualche dubbio in più. Si tratta di un cd nè più complesso nè meno degli altri che l’hanno preceduto, ma che è sicuramente diverso. Damnation è praticamente un album di prog anni ’70 che risulta sempre vivo e attuale, che non suona vecchio alle nostre orecchie di oggi e che forse non aggiunge nulla a quanto detto in questi anni, ma che sicuramente si fa sentire e che lascerà un segno in tutti gli ascoltatori.
Tracklist:
01 Windowpane
02 In My Time of Need
03 Death Whispered a Lullaby
04 Closure
05 Hope Leaves
06 To Rid the Disease
07 Ending Credits
08 Weakness
Alex “Engash-Krul” Calvi
(ringrazio la mia amica Sandra per la consulenza)