Recensione: Dancer And The Moon
Il duo a conduzione familiare più famoso della scena folk è tornato! A distanza di tre anni dall’ultimo “Autumn Sky”, la coppia di menestrelli formata da Ritchie Blackmore e Candice Night fa di nuovo capolino sugli scaffali dei negozi con un nuovo concentrato di musica rinascimentale condita da percussioni assortite e mandolini.
L’ottavo capitolo della discografia dei coniugi Blackmore si inserisce in una scia di precedenti piuttosto fortunati, apprezzati sia dalla critica che dal pubblico grazie agli arrangiamenti raffinati e alla produzione ben realizzata. Negli ultimi album, il talentuoso chitarrista aveva riabbracciato le sonorità primigenie, spostando pian piano l’ago della bilancia musicale della band verso il versante rock. Sebbene non si potesse certo parlare di un ritorno ai tempi di Deep Purple e Rainbow, è stato interessante notare come il musicista abbia deciso di dare nuovamente spazio alla strumentazione elettrica e alle possibilità artistiche che questa offre. “Dancer And The Moon” continuerà a muoversi in tal senso o il bardo avrà deciso di porre fine all’esperimento e tornare all’esecuzione più classica?
Il primo impatto con il disco lascia immaginare che i nostri non abbiano voluto discostarsi particolarmente da quanto registrato negli ultimi quindici anni: impacchettati sotto una bella copertina in stile “Almanacco del giorno dopo”, ben disegnata e di buon gusto, troviamo ben tredici pezzi; come da consuetudine, il duo miscela senza remore canzoni inedite a ri-arrangiamenti in chiave medievaleggiante di famosi brani provenienti da discografie altrui. Oltre al binomio novità/cover, l’altra immutabile alternanza è quella tra i pezzi puramente strumentali e quelli in cui ascoltiamo il risultato della collaborazione dei coniugi.
Mano a mano che le tracce si avvicendano all’interno del nostro stero, arriva la conferma a quanto supposto al momento di inserire il disco nel lettore: i Blackmore’s Night sono tornati alla carica proponendo una formula ben collaudata. Evidentemente poco desiderosi di lasciare la via vecchia per la nuova, la coppia di artisti segue sentieri ben battuti e decide di accantonare ogni qualsivoglia forma di rischio creativo e sperimentale per dar vita, piuttosto, a un prodotto sicuro, che si fa assaporare come acqua fresca in un pomeriggio estivo.
La voce di Candice intesse melodiosi volteggi accompagnando la chitarra del marito, evidente protagonista musicale assoluta dei brani. Blackmore non si risparmia e alterna episodi acustici a trovate in chiave elettrica in un’alchimia che fluisce imperturbabile. Come un fiume in pianura, il CD scorre senza scossoni, perfettamente bilanciato in tutti i suoi elementi, dalla produzione alla qualità tecnica dell’esecuzione dei due partecipanti. Nessuno stupore particolare nel notare i picchi qualitativi raggiunti negli strumentali; particolarmente ben riusciti, inoltre, i brani più veloci e allegri come la title-track o “Troika”. La parte terminale del disco, invece, ha una certa tendenza all’appiattimento: i pezzi proposti non brillano di certo come i precedenti e, pur non diventando mai veramente noiosi, avrebbero avuto di certo un impatto diverso se immersi in una scaletta diversamente miscelata.
Il problema maggiore di questo disco è, paradossalmente, proprio la sua qualità. Quello che può rendere entusiasti alcuni, può far impazzire altri. Personalmente, non ho potuto fare a meno di notare come tale perfezione estetica ed estatica risulti sovente fin troppo artificiale. Con questo, non voglio dire che ci troviamo davanti a delle canzoni sterili e incolori ma, piuttosto, a dei pezzi che, pur di buoni natali, sono stati in seguito raffinati in maniera eccessiva, risultando affettati e sovrabbondanti anche per uno stile di musica così barocco. Un eccesso di forma che imputo, più che ai due musicisti, alla produzione del disco stesso, sicuramente sovra-informatizzata rispetto al prodotto iniziale.
Ormai avrete sicuramente capito che cosa ha scaturito in me svariati ascolti di “Dancer And The Moon” ma, per vostra comodità, affido alla conclusione il riassunto delle mie riflessioni. L’ultimo nato in casa Blackmore’s Night è indubbiamente un bell’album di folk rock, suonato in maniera ineccepibile da un grandissimo chitarrista e vocalizzato in maniera efficace da sua moglie. La formula studiata dalla coppia per realizzare un disco sta diventando, forse, un po’ troppo abusata e mostra i primi segni di cedimento; è ineluttabile, però, che apprezzerete questo disco se avete amato i precedenti lavori del duo. Resta da capire quanto sia possibile continuare su questa strada o se, invece, tutta questa adamantina compiutezza esteriore nasconda piuttosto un’incapacità sopraggiunta di esprimersi attraverso le sette note.
Damiano “kewlar” Fiamin