Recensione: Dark Horizons

Di Carlo Passa - 21 Settembre 2024 - 10:04
Dark Horizons
Etichetta: Frontiers Music Srl
Genere: Heavy 
Anno: 2024
Nazione:
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75

Sono invecchiato irrimediabilmente? o il nostro genere si è un po’ incartato su sé stesso? oppure i tempi della fruizione digitale di ogni bene lo rende effimero? Fatto sta che Dark Horizons, secondo disco dei Sinner’s Blood, guidati dal talentuoso cantante cileno James Robledo, è un gran bel disco, senza sbavature scritturali, pieno di melodie piacevoli e ricco di suoni e arrangiamenti cristallini. Il modello principale di riferimento della band sono i primi Masterplan, assieme ai Symphony X più metallici: e davvero Robledo è un valido incrocio tra Jørn Lande e Russell Allen.
Insimma tutto bene. E allora perché questo senso di vuoto? perché ho la spiacevole sensazione che, ancora una volta, il precipitato che verrà lasciato dall’ennesimo disco sapientemente prodotto avrà la durata dei pochi ascolti che gli dedicherò tra uno skip e un altro? Pensateci: di quanti dischi di band uscite nell’ultimo decennio ricordate, o addirittura vi trovate a canticchiare una qualche canzone? quanti ne andate a riprendere dal vostro archivio, sia esso fisico o digitale? purtroppo, almeno nel mio caso, pochi. Ecco, la mia speranza sarebbe quella che Dark Horizons possa entrare in questo ristretto club, anche se, purtroppo, ho la sensazione che sarò frustrato dai fatti.
Perché Dark Horizons è perfetto. Troppo. Va bene, non inventa niente: ma su questo possiamo soprassedere, perché l’innovazione non è la misura corretta di valutazione di una band dall’offerta derivativa come i Sinner’s Blood. Il problema è che dalle casse del mio consunto stereo non esce la puzza di sala prove, non esce il sudore delle ascelle, la dinamica convinzione dei musicisti: piuttosto, mi avvolge un bellissimo suono digitale di candida pulizia, una scrittura incantevole ma distante, una voce eccellente ma, in ultima istanza, impersonale.
Ripeto: il disco è molto bello e pezzi come la title track, o The Man, The Burden And The Sea hanno una marcia in più rispetto alla stragrande maggioranza delle canzoni che mi capita di ascoltare negli ultimi tempi. Per non parlare della epicamente cangiante It Comes In The Dark. Ma tutto Dark Horizons fila via che è un piacere. Si ascolti la tirata Victim Of The Will, che è forse il momento migliore del disco; oppure l’intimista The Voice Within, la cui dolce melodia è un sollievo dai rumori del mondo. O ancora la conclusiva Redemption Or Fire: metallica, progressiva, melodica, assomma tutte le (buone) proprietà dei Sinner’s Blood.
In conclusione, perché questa intemerata vagamente nichilista? Non certo per demeriti specifici di Dark Horizons o, addirittura, dei bravi Sinner’s Blood; piuttosto, per constatare come molto metallo oggi sia sfregiato dalla propria perfezione, dall’adesione a un canone che, troppo ripetuto, è diventato prevedibile in gran parte delle sue componenti. Il risultato è un’altra bella raccolta di note che rischia il dimenticatoio, perduta nel tanto vociare che ci circonda, mentre, per l’ennesima volta, metteremo The Number of the Beast sul piatto, ricordandone a memoria la scaletta.

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