Recensione: Dark Matter
Gli IQ, assieme ai Pallas, sono indubbiamente la più bistrattata tra le band che rientrano in quel bistrattato genere noto come il neoprogressive rock.
Non che la cosa desti stupore particolare, poiché il neoprog non ha mai regalato pagine indimenticabili alla storia della musica, trattandosi di un genere nato negli ’80 e seguito al più da una manciata di gruppi.
Si Tratta poi di uno stile tutt’altro che innovativo: tutte o quasi le band neoprog infatti hanno scelto una poetica musicale derivativa, fatta della riproposizione di cose già dette e ridette nel decennio precedente dai maestri inglesi quali Genesis, Yes e chi più ne ha più ne metta.
Una “sottobranca” prog genuinamente manierista ed autocompiaciuta senza dubbio, nella quale raramente si sono avute formazioni in grado di dare un tono personale alla propria proposta. Si potrebbero in tal proposito nominare Pendragon e Marillion, ma fare altri nomi risulta problematico.
E probabilmente dev’essere stato il sempre impietoso confronto con la band di Phish a rovinare molti complessi neoprog, tra i quali appunto gli IQ, che dei Marillion sono sempre parsi una versione più complessa e autocompiaciuta, due parole che spesso in musica sono sinonimo di “sfiga”. A questo vanno unite alcune release non particolarmente esaltanti quali “Are you sitting comfortably?” ed ecco che l’ignoranza che aleggia attorno al quintetto inglese non deve esattamente stupire.
Resta il fatto che i nostri, malgrado la difficoltà (e la ripetitività) delle loro produzioni, rimangono in possesso di una classe non indifferente, unita alle volte ad una sobrietà che, nel corso di questi vent’anni, ha prodotto dischi più che validi.
Ne è un esempio lampante il meraviglioso “Dark Matter” del 2004, un disco che trasuda neoprog da ogni solco, ma al contempo è pervaso da una leggerezza disarmante, che ne fa un boccone tutt’altro che indigesto.
Un disco che trasuda neoprog, si è detto, sin dalla struttura, poiché ripartito nella classicissima divisione in cinque composizioni e, più esattamente, una encore da 10 minuti, tre canzoni “normali” e la proverbiale suite da mezz’ora. Ragion per cui andiamo con ordine.
Presentato da un’artwork a dir poco vomitevole (gli inglesi non si sono mai distinti per buon gusto in tal senso) il disco risulta sin da subito permeato da tastiere fredde e dilatate, simili a quelle che compaiono nei film di fantascienza settantiani. Non tanto quelli di invasioni aliene, piuttosto quelli di viaggi nello spazio e ricerche di altre forme di vita. Queste le note su cui si apre anche la encore “Sacred Sound”, un brano che poi, sempre dominato dalle tastiere, si sviluppa su trame apparentemente semplici e su linee guida che convincono sin da subito, dato che la prova di Peter Nicholls alla voce e di Mike Holmes alle chitarre sono, al solito, da applausi. La divagazione centrale, perché di divagazione si tratta, risulta piuttosto pesante e si incastra alla men peggio nella più ampia struttura compositiva, ma guadagna la sufficienza grazie ad alcuni ottimi spunti del già citato Holmes. Nel complesso comunque “Sacred Sound” si lascia apprezzare e, sebbene sia il brano debole del lotto, è dotato di un ritornello davvero magico. Deciso cambio di atmosfera invece nella successiva “Red Dust Shadow”, una traccia elettroacustica, pinkfloydiana, semplice e crepuscolare, dove i nostri, a riprova del fatto che la classe non è acqua, riescono a trasformare in oro uno dei riff più abusati della musica britannica (confrontate questo episodio a “Mystical Machine Gun” dei Kula Shaker e capirete). Ne viene fuori un pezzo di emozione rara, da riscoprire anche ad anni dal primo ascolto.
“You Never Will” e “Born Brilliant” sono invece pezzi più tesi ed elettrici, sebbene ancora una volta dominati dalle tastiere fantascientifiche, mentre, davvero, merita un discorso a parte “Harvest Of Souls”, una delle suite meglio architettate che mi sia capitato di ascoltare. Divisa in sette parti, questa lunga composizione alterna momenti delicatissimi ad altri elettronici ed arzigogolati, ma ciò che veramente colpisce è il continuo rincorsi dei vari leit motiv, che fanno una comparsata sporadica per trasformarsi in melodia guida più in là. Rare volte mi è capitato di porre le orecchie su composizioni così meravigliosamente strutturate, ed è inutile fare paragoni con “Scenes Of A Memory” o “Not Of This World”, l’unica cosa da fare è piazzare il cd in pedana di lancio e le cuffie sui lobi: non potrete esserne delusi.
E questo discorso vale per l’intero “Dark Matter” che, sebbene adombrato da un paio di scivoloni, conserva dalla sua una spontaneità davvero rara per il Neoprog, una spontaneità in virtù della quale a dieci anni dall’uscita, questo lavoro si mantiene intatto e indifferente allo scorrere del tempo, qualificandosi come il disco migliore dei nostri dietro al magistrale “Subterranea” e alla pari dell’ottimo “The Wake”.
Tiziano “Vlkodlak” Marasco
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Line Up:
Peter Nicholls – voce
Mike Holmes – chitarre
Paul Cook – batteria
Martin Orford – tastiere
Tim Esau – basso
Tracklist:
01 Sacred Sound – 11:40
02 Red Dust Shadow – 5:53
03 You Never Will – 4:54
04 Born Brillant – 5:20
05 Harvest of Souls – 24:29