Recensione: Dark Parade
Trovarsi tra le mani un disco dei Cirith Ungol trasmette una sensazione strana, un autentico miscuglio di emozioni: timore reverenziale, entusiasmo, adrenalina. Vuoi per quel nome altisonante stampato in alto, sulla copertina, vuoi per lo sguardo minaccioso di Elric di Menilboné, capace di trafiggere la carne al pari della fedelissima Stormbringer. “Dark Parade”, sesto studio album dei Cirith Ungol, non fa eccezione a questa regola. E così, quando ci ritroviamo con il digipak in mano, pronti a inserire il CD nel lettore, cadiamo in una sorta di trance. Una sensazione amplificata dalle dichiarazioni rilasciate dalla band, che fanno apparire “Dark Parade” come possibile canto del cigno della leggendaria formazione californiana.
Dal punto di vista musicale, “Dark Parade” non tradisce assolutamente le aspettative, regalandoci una band in forma strepitosa, in grado di bissare la gemma del 2020, il disco del ritorno in scena: “Forever Black”. Tocca alla diretta ‘Velocity (S.E.P.)’ aprire le danze. Con questa canzone i Cirith Ungol mettono in bella mostra i muscoli, oltre a sfoggiare tutte le caratteristiche che compongono il loro sound. La traccia è la più veloce del disco e il suo inizio – con quell’assolo che sa di anni Ottanta fino al midollo, la ritmica di accompagnamento che martella sulla corda a vuoto, con la variante scandita dagli accenti dettati sui piatti da un incalzante Robert Garven – beh, è un qualcosa che manda in estasi i nostri padiglioni auricolari. Dopo un attacco di tal fattura – che definire killer è forse riduttivo – entra in scena la graffiante voce di Tim Baker. Il cantante spazza via qualsiasi cosa, manifestandosi come un demone pronto a tormentare le povere anime umane, colpevoli di una vita riprovevole, dedita solo all’interesse personale. Basterebbe questa prima traccia per urlare all’ennesimo capolavoro griffato Cirith Ungol, ma sarebbe un peccato mortale, visto che Garven e compagni ci regalano altre sette canzoni di qualità superlativa. Sette tracce in cui la compagine di Ventura ci trascina nell’oscurità sotterranea più profonda, dove gli esseri umani sono chiamati a espiare le proprie colpe. Sì, perché “Dark Parade” si sviluppa su lidi heavy-doom, dalla forte connotazione epica, in cui il chitarrismo del duo Lindstrom-Barraza fa la voce grossa. Le due asce sembrano essere diventate una cosa sola, evidenziando una sintonia, un amalgama unico, che dona grande personalità alle composizioni. Proprio questo aspetto rappresenta la bellezza di “Dark Parade”, un lavoro capace di unire alla perfezione le due anime dei primi Cirith Ungol – quelle del sensazionale “Paradise Lost” e del magico debutto “Frost and Fire” – all’ultima reincarnazione della band, quella espressa da “Forever Black”. Per comprendere quanto appena descritto è sufficiente ascoltare la splendida ‘Sailor on the Seas of Fate’, una sorta di ‘Chaos Rising’ del nuovo millennio, o la title track, in cui possiamo apprezzare echi provenienti da “Frost and Fire”.
“Dark Parade” è un disco oscuro, cupo, nero come la pece, una lezione su come si debba suonare heavy-doom, dalle tinte epiche, nel 2023. Un album carico di pezzi da novanta, pronti a rapire l’ascoltatore, a entrare in testa per non uscirne più. Un lavoro da ascoltare dall’inizio alla fine, un viaggio carico di pathos, un crescendo di tensione. E proprio questo aspetto ci porta a fare una riflessione su “Dark Parade”: con quest’album, il fine ultimo dei Cirith Ungol è descriverci quali siano le nostre colpe e condurci verso la punizione eterna. Lo fanno partendo dalla nostra attuale e frenetica società, ben rappresentata dall’iniziale ‘Velocity (S.E.P.)’, per poi scavare sempre più verso il centro della Terra, fino a imbatterci nelle porte dell’Inferno. Solo allora, una volta attraversate, scopriremo il nostro destino. Un passaggio descritto con l’accoppiata conclusiva, ‘Distant Shadows’ e ‘Down Below’ che, forse, rappresentano l’apice espressivo di “Dark Parade”. E proprio con ‘Distant Shadows’ e ‘Down Below’ entriamo all’Inferno, dove ad attenderci incontriamo un indemoniato Tim Baker, pronto a scagliarci addosso la sentenza, la dannazione eterna. La teatralità con cui il cantante americano interpreta queste due tracce rasenta davvero la perfezione.
“Dark Parade” è inoltre valorizzato da dei suoni curatissimi, potenti, grossi come macigni. E se non si fosse ancora capito, la prestazione dei singoli è di prim’ordine. Ma a colpire e lasciare il segno è la freschezza delle composizioni, che pur suonando “classiche”, risultano personalissime, uniche, con il marchio Cirith Ungol impresso a fuoco. La speranza è che Garven e compagni possano regalarci ancora gemme del calibro di “Dark Parade” anche se, come sottolineato all’inizio di queste righe, le dichiarazioni fin qui rilasciate fanno pensare a ben altro. Inutile perdersi in pensieri vani, però. Al momento, l’unica cosa che possiamo e dobbiamo fare è impossessarci di una copia di “Dark Parade”, un lavoro destinato a uscire spesso dalle casse dell’impianto, un album che di diritto entra tra i migliori dischi di questo 2023.
Turning, gazing one last time – a future unforeseen
Pushing from the shore, pushing on toward destiny
Wipe the tears of sorrow, of the choices that we’ve made
All we have is chaos, and our rune encrusted blade…
Marco Donè