Recensione: Dark Triad: Bitter Psalms To A Sordid Species

Di Gianluca Fontanesi - 7 Agosto 2021 - 18:26
Dark Triad: Bitter Psalms to a Sordid Species
90

Clap clap clap clap, e ancora clap clap clap clap…
Un’altra volta, clap clap clap clap…

Applausi, null’altro da aggiungere. Il progetto Epiphanic Truth esce così, senza dire nulla né accompagnato da presentazioni; si trovano in rete solo tracce fumose e non ci è ad oggi pervenuto uno straccio di nome o qualche indizio concernente la line up del disco (batterista a parte). L’opera viene data alle stampe come se niente fosse e, se non fosse stato per un tour da rabdomanti provetti su Bandcamp, non ne avremmo saputo nulla nemmeno noi.

Dark Triad: Bitter Psalms To A Sordid Species è ufficialmente il debutto di un collettivo con base in Inghilterra e, durante i ripetuti ascolti e anche al miliardesimo passaggio, appare chiarissimo che i nomi coinvolti siano tutt’altro che novellini.

Sono tre i brani proposti, tre cantiche come l’Alighieri. La trilogia oscura è un concept basato sui disturbi della personalità: psicopatia, narcisismo e machiavellismo. Si riflette qui sul futuro politico delle civiltà nella morsa dei social media, prede della disinformazione che crea un distacco sempre maggiore dalla realtà. Questa genesi continua di estremi, anche folli e basati sul difficile discernimento tra vero o falso, porterà sempre a una battaglia in cui i forti schiacceranno i deboli.

Le premesse ci sono tutte, ci sono le tematiche attuali e c’è anche la giusta aura di mistero che certe opere estreme dovrebbero avere; discrezione, anzi, nel caso degli Epiphanic Truth e la parola più calzante.

Dark Triad: Bitter Psalms To A Sordid Species mette perfettamente in musica quello che dice a parole: sembra apparentemente un normale disco post death, poi prende le derive più improbabili e penetra nell’animo senza più uscirne.

Si parte a bomba con The Truth Of The Beast, e già dalla produzione le cose vengono messe in chiaro: tutti vorrebbero un disco con questi suoni, perfetti sotto ogni punto di vista. Ogni nota e ogni sfumatura escono dalle casse con una definizione del suono certosina e maniacale; più si va avanti più cresce la voglia di partire a comprare un impianto hi-fi serio per sentire tutto questo ben di Lucifero su vinile e ai volumi più alti e avvolgenti possibili. La prima traccia, dicevamo, è un essere bifronte, che offre una prima parte post death e una seconda jazz-ambient come se qui tutto fosse perfettamente normale. Il cantato alterna growl e scream, con quest’ultimo praticamente identico al cantante dei Raised Fist (Alexander, sei tu??); le clean sono presenti in tutta l’opera ma ben centellinate e col giusto filtro.

E’ stato fatto un lavoro incredibile di arrangiamento e di ricerca del suono che è oggettivamente difficile da descrivere; qui si passa dal drone al death metal più brutale con la massima naturalezza e con la sensazione che sia tutto perfettamente collegato e figlio di un disegno più grande.

An Inesplicable Verdict è con ottime probabilità uno dei migliori brani post metal mai stati scritti. Se la traccia precedente era di altissimo livello, qui siamo invece di un altro pianeta. Si parte in maniera piuttosto violenta per poi andare a parare su un grandioso tessuto di loop e psichedelia. Wilfred Ho, session man di Hong Kong, dietro le pelli è artefice di una prestazione pazzesca e gli arrangiamenti qui sono allucinanti. Viene in mente Oscar Wilde, con Dorian Gray intento a contemplare un ritratto che muta forma, si evolve e diventa sempre più oscuro fino all’esplosione finale dove il death metal trafigge le orecchie dell’ascoltatore nella sua forma più primitiva e brutale.

Our Vile Roots Flourish Beyond Light si pone in conclusione del tutto ed è una lunga suite di oltre ventidue minuti in cui le sonorità diventano ancora più devastanti nella prima parte, dove i blast beat fanno da padroni e le atmosfere diventano sempre più opprimenti. Si cambia registro verso la metà in cui un ottimo tema arriva a dare aria e speranza per poi essere soffocato da un finale death doom senza via di scampo.

E’ davvero difficile descrivere un disco di questo tipo, talmente ricco e stratificato che, quando si pensa di averne messo in risalto un lato, ne emergono altri 2 o 3 della stessa importanza. Dark Triad è tutto tranne che un’opera di facile fruizione e assimilazione. E’ pane per i denti degli amanti dei dettagli e della destrutturazione: qui c’è si la formazione metal classica ma la parte del leone la fanno tastiere, sampler e tutto un comparto elettronico ricco di ogni diavoleria. Ci si perde ad ogni passaggio e ad ognuno di essi si trova una chiave di lettura diversa; parliamo di un’opera moderna, figlia di una ricerca sonora di alto livello e che si colloca nel piccolo sottoinsieme dei dischi difficilmente dimenticabili. Da segnalare anche il bellissimo artwork ad opera di Christine Violet, che inquadra alla perfezione il messaggio dell’album e le sue molteplici sfaccettature.

Se siete quindi amanti della musica estrema fortemente sperimentale e contaminata, un passaggio su Dark Triad è obbligatorio e, oseremmo dire, necessario. E’ anche figlio di un particolare umorismo nero il fatto che un capolavoro in un anno senza concerti sia proprio un album che, per dichiarazione della band, non verrà mai suonato dal vivo.

Nel regno delle apparenze
La fede usurpa la verità.
L’esistenza è una guerra perpetua
Ogni azione, un giro di ruota

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