Recensione: Dark Wings of Steel
“… spreading the wings of the dream
I want to win between fire and steel
for them all…”
L’attesa per Dark Wings of Steel è stata come un fuoco interiore, per i fan dei Rhapsody of Fire. Una fiamma che ha bruciato lentamente, sin dall’epilogo della saga di Dargor, durata ben quindici anni e dieci album, suggellata due anni fa con la stretta di mano tra il tastierista Alex Staropoli e l’eterno amico chitarrista Luca Turilli, in segno di saluto. Split. Poi la formazione dei “due Rhapsody”, uguali nel moniker e nel logo, distinti nello stile e nei percorsi artistici. La fiamma ha continuato ad ardere nel cuore dei fan: anche prima della repentina uscita di Ascending to Infinity, tutti sapevano cosa aspettarsi da un Turilli già a suo agio nei panni di solista; ma la domanda sul futuro dei Rhapsody of Fire permaneva. Il tour europeo. L’attesa cresce. Il Live-CD “Live – From Chaos to Eternity”. “Ottima prova, ma che accadrà con un full-lenght?”, si chiedevano i fan. La temperatura sale. Lo split con Tom Hess. Poi, finalmente, a metà settembre: l’annuncio. Proprio quando l’hype dei fan era al massimo, tirato all’inverosimile.
Ora che Dark Wings of Steel è nelle nostre mani e suona nei nostri impianti, possiamo comprenderne il legame con l’acciaio. Un acciaio pesante. Perché quest’album colpirà duramente I fan come il martello del fabbro colpisce il metallo incandescente, reso malleabile dal fuoco nell’attesa di quel colpo sapiente e preciso. Li farà discutere, vibrare, confrontarsi, perché l’attesa comporta sempre un’aspettativa – e l’aspettativa porta a giudizi. Si farà certamente sentire, nel bene e nel male, come il fragoroso battito d’ali di un drago, quello dell’artwork di Felipe Machado Franco.
La prima parola che mi viene in mente, dopo un mese di ascolto inquieto, è “decostruzione”. “Palingenesi”. “Involuzione”, per alcuni. Sono infatti lontani i momenti scanzonati, ballati e folk della foresta degli unicorni, dei villaggi dei nani, degli specchi d’argento, degli arpeggi bardici tra elfi, flauti di pan ed uccellini come “Old Age of Wonders” o “Dragonsland’s Rivers”. Nessuna tarantella, ma grande solennità e profondità lirica, il tutto in un contesto più heavy.
Lo stile si fa più severo. Epico, ma più terreno. Umano. Il lato cinematico, cavallo di battaglia della band gemella, altrimenti (auto)definito in passato “Hollywood Metal”, è qui interpretato con un’altra filosofia. C’è epicità, ma senza troppi effetti speciali. Come in Ben-Hur. Come in Conan il Barbaro. Gli strumenti sono veri. Fisici. I riff sono grezzi, muscolari. Sinceri, senza sonorità barocche e sovraincisioni ridondati. Veri come l’orchestra. Poi ci sono le tastiere. Tante tastiere, come prevedibile dal cambio di leader. Niente più concept, testi liberi scritti da Fabio Lione, musica composta da Alex Staropoli e dal fratello Manuel. Niente più parti recitate dai personaggi di turno, niente più interventi esterni del narratore, presenti invece in Ascending to Infinity. I tempi di Sir Christoper Lee sembrano ormai un tiepido ricordo, con quest’ultimo uscito nell’anno in corso con il nuovo capitolo della sua saga metal incentrata su Carlo Magno, ispirata certamente dalla sua avventura con la band triestina.
Ma è impossibile definire Dark Wings of Steel generalizzando. Prescindendo dalla musica, dalle scelte stilistiche, dagli echi dal passato e dai momenti di rottura.
Proemio epico dell’opera, la corale invocazione alla “Vis Divina”, simbolo o segno della vita, con le tastiere di Alex in crescendo sullo stesso refrain che si fanno largo tra i cori, quasi a smarcarsi dall’intro chitarristica dell’ultimo From Chaos to Eternity.
Il “nuovo eroe” fa qui la sua comparsa. Non stiamo parlando di personaggi mitologici legati ad una qualche saga, ma del chitarrista Roberto De Micheli, ex compagno di classe di Luca Turilli, già membro della band negli early days e recentemente tornato, figliol prodigo, in forze ad una delle band power più conosciute al mondo. Sin dall’attacco il tutto ricorda “Dawn of Victory, a partire dal riff. Le tastiere riprendono subito la scena e solo quando è compiuta l’alchimia con cori e ritmica entra in scena Fabio Lione. In “Rising from Tragic Flames” gli elementi per un brano 100% Rhapsody ci sono tutti, dalla doppia cassa in poi. Forse troppo certosina e squadrata la batteria, forse poco coraggiose e molto “classiche” certe soluzioni, eppure convincente. Nel titolo, nomen omen, un chiaro monito del ritorno della band, innalzatasi con le sue oscure ali d’acciaio da fiamme tragiche.
Ancora tastiera e pianoforte a fare da lead in apertura per il mid-tempo “Angel of Light”. Lione profondo e cattivo, fino all’esplosione corale nel ritornello. I riff di chitarra anche qui sono più semplici del solito: i Rhapsody of Fire si dimostrano in quest’album molto più affini ai Manowar che agli Helloween. De Micheli non vuole strafare e ne esce con personalità, in rottura col passato. Prima della chiusura c’è anche spazio per un breve arpeggio di chitarra, talmente breve che quasi non ce se ne accorge, tanto repentino è l’intervento di Fabio. Proprio lui, l’autore dei testi, ossessionato anche con gli Hollow Haze con questo mantra “time has no meaning”, qui sospirato all’angelo. Sarà che tra Rhapsody of Fire, Vision Divine, Angra (a breve in studio) ed Hollow Haze sarebbe meglio, almeno per la sua agenda, che il tempo fosse solo un’entità astratta?
Lacrime di dolore, almeno nel titolo, per “Tears of Pain”. Anche qui, non si scende sotto la soglia psicologica dei sei minuti. Qualcuno dai palchi e dalla platea inizia a dissentire sul minutaggio, che di certo non aiuta ad alleggerire l’ascolto. Intermezzo in italiano ‘vecchio stile’ prima del ritornello e prima dei solos, anche se purtroppo il tutto inizia a farsi un po’ prevedibile, mentre la batteria sembra non decollare mai.
“Fly to Crystal Skyes” parte come un diesel fino alla cavalcata nel ritornello, buona la performance di Fabio, anche se ad originalità iniziamo a sentirci in zona filler. Interessante invece il botta e risposta nei solos tra tastiera e chitarra con un’incursione in sweep-picking di Roberto. Ci pensa “My Sacrifice” a mescolare gli ingredienti spingendosi oltre: gli elementi sono gli stessi, l’italiano, le melodie, i riff che qui si amalgamano fino a costruire un brano dall’aspetto più progressivo della durata di ben otto minuti, con un fantastico assolo tra fraseggi di chitarra e tastiera di grande impatto. Echi da “Triumph or Agony” in “Silver Lake of Tears”, brano già proposto ai fan via web prima della pubblicazione dell’album. La ballad “Custode di Pace” segue il solco di “Lamento Eroico” e “Guardiani del Destino”, e soprattutto de “Il Canto del Vento”, già opera tipicamente romantica scritta da Lione, qui citata (in)volontariamente da quel “cielo incastrato” (ehr…) che è quasi una firma dell’autore. Pezzo musicalmente ineccepibile, interpretazione da brividi che cresce con gli ascolti, anche se purtroppo per un ascoltatore italiano non basta un testo “musicale” per apprezzare l’intero brano. Sulle liriche in lingua madre, al solito, si può fare di meglio.
Nihil novum sub sole per “A Tale of Magic”, pollici in su per la melodia di un ritornello davvero notevole, “nothing else to report”.
Titletrack di nuovo evasiva rispetto al passato: nessuna suite magniloquente da dieci minuti per “Dark Wings of Steel”, solo un pezzo solido e di grande spessore che si staglia come una tra le migliori proposte del platter. Scelta molto azzeccata. Il riff è quello giusto (con la chitarra purtroppo troppo in secondo piano sul mixer, peccato), le tastiere di Alex Staropoli prendono per mano il pezzo e lo portano ad un livello superiore; la melodia coglie nel segno assieme all’intervento orchestrale e del coro, che in un ritornello epico di tale fattura imprimono su questo disco il sigillo di autenticità della band triestina: ottima anche la voce di Fabio, sempre molto versatile.
C’è spazio anche per solido il mid-tempo finale “Sad Mystic Moon”, altra proposta di grande qualità dal ritornello trascinante, curiosamente capitata alla posizione numero undici, che chiude l’ascolto proprio con il suo chorus. E la parte finale narrata? Ah, già… non c’è!
La sempiterna fucina musicale dei Rhapsody of Fire si esprime in Dark Wings of Steel col divampare focoso e passionale delle melodie e col clangore cadenzato del metallo: una forte e calda componente melodico-sinfonica: il fuoco, supportata da duri riff di chitarra heavy, veloci e potenti: l’acciaio. Un lavoro comunque non privo di difetti, tra i quali una certa ripetitività nel songwriting, un minutaggio medio molto elevato, dei testi decisamente banali e stereotipati ed un drumming troppo meccanico – ai quali può sommarsi il non apprezzare questa brusca virata in termini di sonorità poco creative, vero discrimen sulla valutazione finale dell’album. Ma a fronte di ciò, “Dark Wings of Steel” è un album di buona fattura, che fa delle sue spigolosità un segno distintivo, orientato come agli esordi verso la musicalità delle melodie dei brani, piuttosto che puntare su funambolici giochi di prestigio strumentali o su una trama cinematografica da raccontare.
Un’opera che ricorda i primi lavori della band triestina, stilisticamente più lenta, lineare e cadenzata, come il battito d’ali draconiche o come il martello del fabbro… ma al contempo meno frammentata: ragion per la quale saranno necessari più ascolti per assimilare correttamente il fluire dei pezzi senza incappare in (facili) giudizi affrettati; per isolare i brani e coglierne gli intermezzi strumentali e le sfumature che fanno da prologo al nuovo, epico percorso intrapreso dalla band. Un percorso che ci riconduce, oggi, alla ricerca dell’essenza musicale dell’ultimo lavoro dei Rhapsody of Fire, alla natura elementale di “Dark Wings of Steel”: al fuoco ed all’acciaio di quelle ali oscure.
Luca “Montsteen” Montini
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