Recensione: Darkness Falls
La generazione di chi scrive, a un certo momento della propria esistenza, collocabile negli anni ‘80, si è confrontata con quelli che sono stati classificati come “guitar hero” (e poi “shredder”). Si parla, nell’accezione strettissima dell’espressione, di Steve Vai, Yngwie Malmsteen e compagnia suonante che rivelarono un modo virtuoso ed “eroico” di suonare la chitarra caratterizzato da una velocità di esecuzione vertiginosa e da tecniche esasperate. In poco tempo, forse più per incapacità di emulazione per quel tempo che per altro, molti iniziarono a criticare quel modo di suonare ritenuto, erroneamente se la critica viene generalizzata, troppo freddo, poco espressivo e per certi aspetti autoreferenziale. Col trascorrere del tempo, grazie all’evoluzione dei sistemi, certe tecniche sono state un po’ svelate e quindi è stato più semplice, per taluni chitarristi, avvicinarsi ai “guitar hero” e, per certi versi, tentare di fare qualcosa di simile a loro.
Ascoltando il bel disco Darkness Falls di Edward De Rosa si ha la netta sensazione di essere introdotti nel mondo degli “eroi della chitarra”, di quei chitarristi in grado di sorprendere e meravigliare, perché l’album è suonato totalmente nella modalità “guitar hero”. Il disco è suonato molto bene e analogamente prodotto; spicca un grande lavoro di ricerca e composizione, il tutto condito con delle competenze chitarristiche molto alte ed encomiabili, però a un certo punto appare qualche perplessità. Dall’ascolto del disco affiorano quelle perplessità che poi, quando si tira la linea per fare i conti finali, spiegano l’infondatezza delle critiche mosse ai “guitar hero” della prima ora, perché riuscire ad avvicinare la loro logica non è affatto semplice e non si tratta soltanto di saper suonare in declinazione super tecnica e veloce; in definitiva ci vuole altro, che poi sarebbe l’”altro” che marca le differenze. Darkness Falls è un disco, come detto, molto bello e ben suonato, ma a un certo punto, anche e soprattutto dopo ripetuti ascolti quando la meraviglia sfuma a favore di un ascolto attento e più essenziale, ci si pone domande del tipo “e quindi?”. Sovente, ad ascolto a basso volume, non si percepiscono più i cambi, le discontinuità, gli inizi e le conclusioni. Probabilmente sarebbe stato utile, anche al fine di concretizzare le “influenze cinematografiche e letterarie” e renderle fruibili, inserire dei testi. Questo soprattutto in Nosferatu, un lungo brano strutturato in sei parti. Ciò avrebbe conferito un valore aggiunto al già alto livello del lavoro.
L’intro (I Am the Night) è ben costruita, soprattutto per le parti orchestrali. L’epicità si taglia a fette e il sound è davvero ben bilanciato. Alle prime note di Awakening (singolo e videoclip) di Edward De Rosa si ha subito la piena percezione di quello che sarà tutto il lavoro. Siamo al cospetto di un concept strumentale oscuro e maligno, blast beat schiacciasassi in risalto e soli di chitarra al fulmicotone. È da sottolineare il bridge di questa track, molto evocativo e orecchiabile. Le tastiere con effetto choir sono onnipresenti e un po’ conferiscono quel senso di “Nightwish sound” che di certo non guasta.
In Chaos Reigns la parte introduttiva corale ricorda molto i Therion di Vovin, considerando anche i successivi arrangiamenti orchestrali. La produzione, come già accennato, è molto pulita e nitida. Tutti gli strumenti sono ben centrati nel mix e, seppur molto compressi, riescono a farsi strada in un ascolto attento. Senza dubbio un aspetto da tener senza dubbio presente e che facilita di molto l’ingresso nel mondo di De Rosa.
Si giunge al punto più alto del disco, ovvero Deceptive Heart. Un brano che si discosta un po’ dal concetto di “claustrofobia sonora” del nostro axeman e ci riporta a quelle sonorità seppur feroci, ma di classe, del mai citato Patrick Rondat (quello di On The Edge, piccola gemma discografica che vede la partecipazione, tra i tanti, di Michel Petrucciani, a cui lo stesso disco è dedicato).
Libido Sanguinis è un concentrato di cori gregoriani e blast beat e che funge da intro per il brano successivo: Nameless City, brano godibile, soprattutto nei refrain.
Chiude il disco la suite Nosferatu. L’intro vede la presenza violoncelli, chitarre acustiche, organi e sessioni d’archi in un incipit suggestivo e tipico di alcune produzioni Power Metal di qualche anno fa. Un viaggio tra passaggi neoclassici in quartine di semicrome, chitarre arpeggiate, sweep picking, riff che sembrano derivare dalla parte più fredda dell’Europa, sprazzi di wah wah, parti corali e voci femminili nel finale. Il tutto forse un po’ troppo frastagliato, dove le strutture tra loro risultano poco legate e rendono l’ascolto molto faticoso anche ai più ingordi della sei corde.