Recensione: Darkness Remains
“Tutto si crea nulla si distrugge ma tutto si trasforma!” Sembra proprio essere questo il monito lasciatoci in eredità dal movimento della N.W.O.B.H.M. Un fermento di band importanti, esploso in U.K. verso la fine degli anni Settanta, attraverso il quale sono sgravati più di quarant’anni di musica heavy metal. Come abbiamo potuto constatare in questi ultimi periodi, c’è stata una specie di era glaciale (gli anni novanta e metà del secolo buio) dove i pochi non in letargo si rendevano ascoltabili, ma quando i titani si sono destati non c’è stata più trippa per gatti: il metal è tornato a casa e da li è ripartito il grande interesse per le classiche sonorità del genere. Abbiamo dovuto aspettare oltre trent’anni, il tempo necessario per permettere ai figli di chi nel 1982 ascoltava dieci volte al giorno “The Number Of The Beast” degli Iron Maiden o “Strong Arm Of The Law” dei Saxon, di apprendere la lezione dei padri e fare sufficiente pratica col proprio strumento musicale. Solo così è esplicabile il revival di giovani band odierne (Enforcer, White Wizzard, Cauldron, etc…) ed altre oggi al debutto, tutte band dedite alla riscoperta e alla rivalutazione di tali sonorità! Questo preambolo introduttivo serve a presentare una band di virgulti americani, che si è resa protagonista due anni or sono di un apprezzato debutto sulla lunga distanza dal titolo “Curse Of The Damned”, un disco che grondava di sonorità tipiche di band come Tygers Of Pan Tang, Blitzkrieg, Savage, Diamond Head e via discorrendo. Come la NWOBHM sia transitata e abbia attecchito dall’altra parte dell’Oceano lo dobbiamo anche e soprattutto a “Fire Down Under” dei Riot, un lavoro imprescindibile che gettò il seme che successivamente diede il via al non meno importante movimento dello US Metal dei vari Armored Saint, Vicious Rumors, Metal Church e primi Savatage.
Il nuovo disco del terzetto Night Demon, a tratti molla le redini nei confronti del metallo inglese per avvicinarsi proprio al sound dei Riot di Guy Speranza e Mark Reale, (ascoltate “Life On The Run” e sappiatemi dire! La parte centrale del brano, tra l’altro, è qualcosa che i Metallica hanno ormai da anni scordato come suonare) rispettivamente cantante e chitarrista della band newyorkese, purtroppo passati entrambi a miglior vita! Il sound dei Night Demon, diviene con “Darkness Remains”, più pesante e potente rispetto al recente passato, senza perdere un’oncia degli intenti iniziali, grazie ad alcuni brani rapidi e immediati come l’opener “Welcome To The Night” – brano che sembra essere uscito dall’enciclopedia musicale degli Heavy Load – “Maiden Hell” (bel gioco di parole), “Dawn Rider” e l’immediatezza della trascinanti “Black Widow”, “Hallowed Ground” e l’immancabile – per dischi del genere – brano strumentale “Flight Of The Manticore”. Le note meno positive arrivano quando la band californiana rallenta il tiro, cercando di diversificare il sound, creando atmosfere cupe e ossianiche anche con l’aiuto di soffusi tappeti di tastiere che sostengono accordi sabbathiani già noti, sicuramente meno efficaci in questo contesto, come accade su “Stranger In The Room“. Buon brano, ma poco efficace nell’egemonia dell’opera. Anche la funebre title-track ricalca certo dark metal settantiano, che, se non si ha nelle corde, rischia di creare immediato imbarazzo nel più navigato ascoltatore.
La strada da percorrere per i Night Demon è ancora lunga, ma il tempo a disposizione per crescere è dalla loro parte. Il terzetto (una seconda chitarra per questo genere è obbligatoria, specie dal vivo) sta cercando di trovare una propria identità musicale e di risultare maggiormente credibile, nonostante il fardello di comparazione col passato che, per scelta, hanno deciso di portarsi sul groppone. Per riallacciarmi al discorso iniziale, posso garantire che ascoltare questo tipo di sonorità nel 2017 è qualcosa su cui, noi vecchi rocker stagionati – solo cinque anni fa – non avremo scommesso uno scellino. Jarvis Leatherby (voce/basso), Brent Woodward (chitarra) e Dustin Squires (batteria) non sono nomi da annotare per ora sull’agenda come ai tempi accadde per Hank Shermann, John Mortimer o Kevin Heybourne e neppure sono dei virtuosi coi loro strumenti, ma state certi che insieme suonano dannatamente bene! Alla fine dell’ascolto possiamo tranquillamente affermare che “Darkness Remains” svolge bene il suo compito, dato che cattura immediatamente l’attenzione, anche per chi, come me, raramente si lascia trasportare dalla prima impressione, preferendo esprimersi dopo analisi, condivisione di intenti e approfondimenti didascalici. Infatti, per buona parte della sua durata, l’album sembra ritrovare quell’entusiasmo ormai sopito della prima ora del metallo pesante e del tempo nel quale l’età ancora verde veniva illusa dai sogni.
Luca Bosio 75