Recensione: Astral Fortress
Ci troviamo oggi ad analizzare il 21esimo (!) album dei nostri cari Darkthrone, che tornano sulla scena dopo solo un anno di distanza dall’ottimo “Eternal Hails…..”. Molto importante nell’ascolto di questo lavoro è riuscire a mediare tra l’istinto del fan che non vede l’ora che i propri beniamini caccino fuori materiale ed il pessimismo di chi guarda con sospetto le uscite con spazialità temporale così ristretta a dividerle. Una cosa è certa, ovvero che chi vince nella schematica visione ideologica alla base di un ascolto di questo tipo è chi non ha mai digerito la svolta semi-doom del gruppo: anche stavolta questo sarà un lavoro da evitare.
Fatte le dovute premesse è il momento di confrontarci con la sostanza che ha da offrire questo disco. “Caravan of Broken Ghosts”, che è stato anche il singolo di lancio, apre ricalcando molto “The hardship of the scots”, come “His master’s voice”. Gradevole all’ascolto, ma se “His master’s voice” rappresentava un passo in avanti rispetto a “The hardship of the scots” qui sembra una cover della prima, senza alcun tipo di aggiunta particolare. Non iniziamo benissimo, per quanto in senso assoluto non si parli di un brano brutto, intendiamoci. Passando per una scialba “Impeccable Caverns of Satan”, arriviamo a “Stalagmite Necklace”: brano che si distingue per qualche sintetizzatore messo lì a condire, ma che fa poco per coinvolgere l’ascoltatore. Non trascinante e non d’atmosfera, non si capisce cosa voglia essere: né carne né pesce. “The Sea Beneath the Seas of the Sea” risulta l’episodio più lungo e indigesto del disco, davvero un pezzo insensatamente prolisso, messo poi a metà lavoro è una mazzata non indifferente per un ascolto integrale. Il pezzo forse più ispirato del lotto, ovvero “Kevorkian Times”, dall’incipit con riff bello affilato sembra preludere ad un brano pungente. Probabilmente il pezzo migliore del lotto, ma prevedibilissimo; per lo meno intrattiene e fa dare due scapocciate. Praticamente non è nient’altro che il brano di apertura, ma compattato per bene. Il disco si chiude con una scialba “Eon 2”, il cui riff iniziale (e finale) lasciava invece presagire robe interessanti, ma sfociate nel piattume più totale, anticipato da un interludio un po’ interlocutorio.
Un’analisi track by track risulta nella sua pesantezza necessaria in questo contesto. I Darkthrone hanno dimostrato di essere una realtà che non ha paura di cambiare e di sperimentare. L’ultima strada percorsa, ovvero quella dell’avvicinamento a sonorità più doom, ha portato a tre dischi di alta qualità (“Arctic thunder”, “Old star” e “Eternal hails…..”) che hanno chiuso un cerchio. La sensazione è che questo “Astral Fortress” sia un lavoro un po’ forzato, di troppo. Il poco tempo fra quest’uscita e la precedente suona un po’ come un campanello d’allarme: nulla si aggiunge, nulla si toglie ad un sistema che era perfetto così com’era, ma con l’inserimento di questo nuovo lavoro va a diluire una formula che ha già detto tutto ciò che doveva dire. Parafrasando il grande economista Piero Sraffa, nulla è aggiunto alla produzione. In questo caso, infatti, non c’è alcun valore che giustifichi un’ulteriore uscita rispetto a quella dell’anno scorso. Gradevole? Per chi sente per la prima volta i Darkthrone forse sì, per chi già li conosce nulla di nuovo. Questo disco non può neanche aspirare a “lavoro doom dei Darkthrone per eccellenza”, perché sicuramente come zenith di tale percorso il disco precedente risulta molto più completo, rifinito e maturo. Paradossalmente questo 21esimo album sembra un B – side del disco precedente. Davvero troppo poco.