Recensione: Das Ende Aller Lügen
Di Varg ne esiste e ne esisterà sempre e soltanto uno e abbronza le chiese, tutto il resto è nulla in confronto al mito diventato leggenda. Monicker a parte questi Tedesconi, tutti pittati di rosso e nero che fanno i cattivoni in giro per la radura di chissà quale posto del mondo, non sanno ne di carne ne di pesce. Gordon Ramsey li avrebbe cacciati dopo tre secondi a calci su Hell’s Kitchen offendendoli miseramente famiglia compresa. Non ho davvero idea di come descrivere tante banalità messe insieme da una sola band. Impegniamoci facendo i seri una volta ogni tanto.
I Varg sono oramai una realtà dell’underground discretamente consolidata, attivi oramai da dieci anni con cinque album all’attivo compreso questo nuovo Das Ende aller Lügen (La fine di tutte le menzogne) è da considerarsi, come gli ultimi dischi composti, l’ennesimo passo falso della loro discografia. Se il primo vagito (Wolfszeit) aveva fatto ben sperare il popolo metal con una nuova ed aitante realtà che poteva portare qualcosa di personale in casa, oggi bisogna oramai rassegnarsi alla dura verità: non c’è trippa per gatti. Cambiando strada compositiva, cambiando tematiche a cui relazionarsi ed ovvie sonorità parallele, la band è ad oggi caduta prepotentemente in un calderone fatto di banalità ed ovvie soluzioni che non fanno altro che addormentare, annoiare e sbalordire negativamente attraverso i lungi e molteplici eventuali ascolti. Un silenzio durato quattro anni ha effettivamente alzato le aspettative per questa nuova release tra le fila dei propri fans, perlopiù tedeschi, che sui vari social network han confermato quanto grande sia il nocciolo duro che non demorde e guarda avanti, pur rimanendo ad ogni nuova release pesantemente scottato. Cosa dire per l’ambito prettamente musicale che non ci faccia cadere dei classici cliché? Se la band inizialmente era partita con una proposta che andava ad affacciarsi su di un viking/folk/pagan misto black con gli anni ha piano piano mutato le proprie sfumature riuscendo, nel bene o nel male, ad abbandonare tali sonorità a favore di un melodia death di stampo scandinavo. Pare che siano state prese di sana pianta bands quali Amon Amarth, Unleashed in maniera minore e qualche velatura di tipica del classico Swedish-death-metal e/o Gothenburg-sound, per creare un calderone di “non-si-sa-bene-cosa” provando a colmare quella lacuna della quale proprio non v’era necessità.
Canzoni standardizzate con ritornello-strofa-ritornello appoggiate su riffs scontati che portano ad una pseudo-apertura verso certe sonorità tipicamente metal-core(!) è la matrice compositiva di Das Ende aller Lügen. Non sto scherzando, basta ascoltare la Titletrack e la sua power-intro per rendersi conto come sarà l’andazzo dell’intero disco; anche le successive Revolution, Streyfzug, e il singolo Dunkelheit sono tipicamente di scuola swedish, combinate in maniera poco professionale con una personalità pari a zero, dove la violenza va a perdersi risultando pari a zero. Gli unici momenti che riesco a riportarci indietro nel tempo, agli albori della band, sono Einherjer e la conclusiva Aschenregen che pur andando ad inciampare in alcune cadute di stile grossolane e fuori da ogni canone compositivo, riescono nell’arduo compito di non farci addormentare nuovamente. La volontà da parte della dei Varg di dinamicizzare questo album si nota in effetti, portando l’altalena delle velocità sonore (specialmente nella seconda parte del disco) a rendere quasi sopportabile l’ascolto sulla lunga distanza. Menzione speciale per due tracce, che a dispetto della bassa qualità dell’intero disco, riescono a farsi notare sopra le altre: Achtung e Totentanz emergono dalla massa inerme di riffs per originalità e creatività. La prima è un mid-tempo orrendo che prende a piene mani da alcuni brani del passato di Marylin Manson e lo ridefinisce in chiave Swedish (parlo in termini prettamente sonori), con un pizzico di spirito cattivo che non guasta mai; la seconda invece ha la fortuna di avere un intermezzo corale che amplifica la struttura e ci offre quale spunto discretamente piacevole; un “lento” che rallegra la giornata. Perché dunque non si boccia amaramente quest’album, regalandogli uno tra i voti più bassi mai offerti? La motivazione risiede nella produzione e nella volontà da parte della band di tentare nuove soluzioni, non fornendo un insieme piatto e monotono a tout-court.Una parentesi va effettuata per l’artwork che… no l’artwork non tocchiamolo, lasciamolo li dove sta che è meglio, non avviciniamoci nemmeno: tanto pacchiano quanto fuoriluogo.
Un album ignorante in termini musicali, che non vale affatto la lunga attesa da parte fans, non vale quattro anni di ovvie prove e registrazioni, non vale nemmeno il prezzo in offerta sugli store on-line della casa discografica un volta estinta l’adrenalina da nuova uscita. Un passo falso? Certamente! Da qui possiamo definitivamente dimenticarci dei Varg e allontanandoci da loro drasticamente; se un’errore lo fanno tutti, due li si possono tollerare, tre diventano ostinazione e tentato omicidio. Non supportate certe amenità, state lontani e lasciate a noi il compito di immolarci per raccontare come oggi non bisogna assolutamente suonare metal; a meno che non vogliate essere ridicolizzati in giro per il mondo. Auf Wiedersehen.