Recensione: Dashavatar

Di Daniele D'Adamo - 15 Marzo 2017 - 0:00
Dashavatar
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2017
Nazione:
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85

… un avatāra è la forma fisica assunta da Viṣṇu, il dio presente nella tradizione vedica e brahmanica … gli avatāra di Viṣṇu sono molteplici, ma a partire dalla codificazione delle scuole Pāñcarātra, gli avatāra di Viṣṇu furono ritenuti “dieci” (daśāvatāra) …
[da Wikipedia, L’enciclopedia libera]

Premessa quanto mai necessaria, in virtù del concept narrato da “Dashavatar”, appunto, quinto album in carriera dei symphonic deathster indiani Demonic Resurrection.

Concept importante non a caso: la formazione di Mumbai è diventata grande, nel senso che, sempre ancorato al ridetto symphonic death metal, “Dashavatar” mostra sin da subito un netto salto evolutivo in avanti rispetto alla produzione pregressa. Che The Demonstealer e compagni avessero nelle corde la potenzialità per diventare una delle migliori band nel campo del metal estremo era chiaro già da po’. Sia per quanto la professionalità espressa nella realizzazione degli ultimi due dischi, sia per le esibizioni live, di livello qualitativo eccellenti.

L’obiettivo pare essere stato quindi raggiunto, con la straordinaria epopea di Visnù, raccontata con eccellente gusto compositivo spesso contaminato – come doveva essere – dagli echi della strumentazione etnica tipica della cultura vedica. Tutte le canzoni, difatti, sono dotate di una profonda anima propria, obbedienti all’ormai tipicità di un sound praticamente unico nel suo genere ma soprattutto ben diverse le une dalle altre. Si percepisce intensamente, cioè, il grande sforzo profuso nella fase di stesura delle song, diretto, in alcuni casi, a dar vita a ritornelli orecchiabili nel senso più ampio del termine (‘Kurma – The Tortoise’, ‘Varaha – The Boar’). Cioè, potenzialmente piacevoli per tutti.

Fermo restando che, comunque, se c’è da far male, i Demonic Resurrection lo fanno eccome, si veda o meglio si ascolti la violentissima ‘Parashurama – The Axe Wielder’, tremenda bordata nello stomaco, nella quale emerge con prepotenza la furiosa potenza delle loro orchestrazioni, già caratteristiche da anni. Tuttavia, è con i pezzi più articolati che i Nostri danno il meglio: difficile dimenticare, difatti, la bellezza a tutto tondo di ‘Vamana – The Dwarf’, per esempio, e il suo stentoreo refrain.

Con ciò, quello che davvero sorprende è la costanza di… rendimento. In “Dashavatar” non c’è un passo falso, un calo di tensione, un brano noioso. Anzi, in alcune occasioni è dura far uscire dalla mente certe azzeccate armonizzazioni, come quella – stupenda – che regge l’esplosiva ‘Rama – The Prince’. Oppure, il duetto chitarra elettrica / sitar, che marchia indelebilmente a fuoco la grandiosa opener-track ‘Matsya – The Fish’. Sitar – appunto – e blast-beats, anche. Un connubio clamorosamente indovinato, che dà nuova linfa al death metal, rinnovandolo e, allo stesso tempo, allacciandolo ai più antichi usi e costumi popolari.

Notevole anche la qualità del riffing, perfettamente sospeso fra grande aggressività e delicata raffinatezza. Assalti al fulmicotone scatenati da imperiosi main-riff cozzano contro improvvise, estese aperture melodiche. Parimenti qui, dove regnano gli accordi distorti e stoppati delle sei corde, si può apprezzare la notevole accuratezza della composizione. Accuratezza che fa capolino anche nei soli, probabilmente studiati allo sfinimento, tanto sono precisi e ordinati.

Insomma c’è da levarsi il cappello, di fronte ai Demonic Resurrection e al loro “Dashavatar”. Finalmente qualcuno che prova, riuscendoci, a staccarsi da triti e ritriti cliché che ammorbano la creatività nel campo del metal estremo.

Bravissimi!

Daniele “dani66” D’Adamo

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