Recensione: Dawn of Aquarius
Nuovo album per gli Arrayan Path, gruppo nativo degli Stati Uniti trasferitosi poi a Cipro, che a distanza di un annetto dal precedente “Chronicles of Light” pubblicano il loro sesto full lenght intitolandolo “Dawn of Aquarius” e dedicandolo interamente alla figura della dea Kali. La materia proposta è un grintoso power metal, melodico e maestoso, che in più punti mi ha ricordato i primi lavori dei nostrani Rhapsody, screziato di influenze più accostabili all’hard rock e sinuose iniezioni di musica mediorientale che si avviluppano nella trama sonora per donarle quel quid di esotismo che non guasta. Si veda ad esempio l’incipit dell’album, col suadente arpeggio di “Equilibrium” che, a poco a poco, prende corpo fino a dar vita ad un brano in cui atmosfere potenti e trionfalismo procedono a braccetto passandosi ripetutamente la palla. Un approccio più stradaiolo apre invece “The Flower Born of Itself”, traccia grintosa e ritmata che si carica di melodie solari durante il ritornello per poi tornare a snocciolare power chords a pioggia. Il breve assolo non fa che confermare i buoni propositi iniziali, aprendo poi a una sezione strumentale quadrata e robusta prima del finale classicamente heavy rock. Con “Dark Daughter of the Snake” ritroviamo lo stesso piglio arrogante e nervoso nel comparto sia strumentale che vocale, per una canzone sbruffona che si tinge di maestosità durante il ritornello; il solo centrale conduce a un breve intermezzo orientale più compassato che spezza la tensione prima di caricarsi di un nuovo trionfalismo, che ci accompagna fino alla successiva “The Hundred Names of Kali Ma”, introdotta da un coro profondamente scandito che riverbera minacciose velleità rituali. La traccia si sviluppa poi in modo più convenzionale, snocciolando tutte le caratteristiche del mid-tempo inquieto con sprazzi di rara maestosità (si veda ad esempio la parte centrale, carica di pathos). “So it Shall be Written” introduce, nella sua apertura, una maggiore enfasi sinfonica nella trama sonora dei nostri ciprioti, che poi si sposta su terreni più consoni a certo hard rock sviluppando, in, più, la giusta dose di trionfalismo da stadio che esplode nel ponte; la sezione solista introduce la seconda parte della canzone, più rhapsodiana nel suo incedere, che ci conduce alla successiva “She Who is Primordial Wisdom”, introdotta da un bel riffaccio ignorante. Il brano è una marcia lenta e arcigna che solo durante il ritornello si libera della sua cappa oppressiva per indulgere in melodie che, di nuovo, mi hanno ricordato i Rhapsody di “Symphony Part 1”. La title-track torna a proporre, di tanto in tanto, temi mediorientali tra un riff e l’altro, salvo poi tornare alle melodie maestose e trionfali che ci hanno accompagnato finora, ma alla fin fine si rivela una traccia solo carina e nulla di più. La successiva “Cremation Ground”, anch’essa introdotta da sinuose melodie arabeggianti, ha il merito di crederci di più: qui l’impronta mediorientale è ancor più preponderante, serpeggiando indolente tra i vocalizzi di Nicholas. La canzone vera e propria parte al minuto 2:26, mantenendo il suo imprinting etnico ma condendolo con una maggiore carica anthemica, per poi sfumare di nuovo nelle trame sonore da Mille e una Notte in tempo per la chiusura di una canzone sicuramente suadente ma dal carattere, a mio avviso, solo interlocutorio. La partenza aggressiva di “Empress” mi sveglia dal letargo, ponendo la sezione ritmica di nuovo in primo piano e sostenendo i suoi riff con cori raschianti, a cui si affiancano pennellate più melodiche per stemperare la carica di un pezzo che, comunque, picchia a dovere per tutta la sua durata. “Lotus Eyes” inizia scandita e stridente e si sviluppa caricando il pathos con melodie solenni e tempi contenuti, mentre qua e là tornano a fare capolino trame orientaleggianti. L’anima incombente del pezzo si rafforza durante l’intermezzo strumentale, salvo poi tornare allo sfoggio di pathos che lo conclude e ci traghetta alla successiva “The Eleventh Mantra”, dai ritmi decisamente più agili. Le rapide accelerazioni fanno da contraltare ad una sezione solista a tratti quasi Eaglesiana e ad un brusco rallentamento nella seconda parte del brano, maggiormente concentrato su una solennità sognante, che però si rilancia subito nel vortice dell’Hollywood Metal. Un delicato arpeggio apre “Guardian Angel”, la classica ballad dominata da melodie malinconiche e rapidi power chords carichi di pathos, eppure…eppure, ecco che di colpo i profumi e le atmosfere mediorientali tornano a farsi sentire: tutto dura un attimo, poco più di una manciata di secondi, ma sufficienti a donare al brano quel sapore da Arabian Nights che già ha sferzato più di una traccia e che le permette di portarsi a casa il risultato.
La chiusura dell’album è affidata a “Garland of Skulls”, traccia breve ma decisa in cui i nostri ciprioti infondono tutta la loro carica per renderla gagliarda, adrenalinica, aggressiva il giusto nonché degna conclusione per un album, questo “Dawn of Aquarius“, interessante e molto godibile. Certo, non inventa nulla, ma nel complesso si lascia ascoltare e scorre senza problemi, oltre a sfruttare in modo abbastanza intelligente l’apporto delle melodie arabeggianti per donare varietà ai profumi sonori che propone.
Dategli una possibilità, potreste rimanere sorpresi.