Recensione: Dawn of the Apocalypse
Non poteva esserci un titolo migliore per un disco del genere. Dawn of
the Apocalypse racchiude in una manciata di parole quello che i Vital
Remains hanno riversato in questo album, un senso di implacabile di violenza
e cattiveria che prelude a qualcosa a cui nessuno può sottrarsi. La copertina
sembra darci giusto un fermo immagine di quello che ci attende in questo lungo
cammino segnato da demoni, visioni angoscianti e rassegnate ad una forza
superiore pronta a travolgere tutto e tutti.
Questa è a mio avviso la caratteristica principale della musica dei mai
troppo lodati Vital Remains, la capacità di saper evocare sensazioni
disturbanti grazie a un uso del death metal non comune a tutte le band della
scena. Un approccio evocativo e maestoso, la ricerca di un significato più
profondo del “semplice” brutal death a cui siamo abituati, attraverso un
songwriting originale, ricco, teatrale, come a voler creare in ogni brano un
capitolo a sé stante in cui i vari frangenti si susseguono alternando ferocia ed
espressività in maniera esemplare, andando a creare delle piccole opere in cui
l’inizio, lo svolgimento tempestoso, e il finale si amalgamano alla perfezione.
Tutto questo senza perdere di vista la radice death che anima i Vital Remains,
che, nonostante tutto il significato intrinseco che si può ricercare nella
loro musica, propongono un monolite pesantissimo sotto tutti i punti di
vista; Dawn of the Apocalypse è estremo nella musica, un death
metal a tratti particolarmente brutale -che strizza comunque un occhio anche
alle sonorità del vecchio continente nei momenti più “melodici”-, estremo nei
contenuti, che vanno ben al di là del semplicismo delle tematiche anticristiane
-come la cover lascia supporre-, ed estremo nella durata, un’ora scarsa di
assalti frontali e aperture evocative che non danno tregua in alcun modo.
Dawn of the Apocalypse è uno di quei dischi che purtroppo non
raccolgono in termini di “popolarità” quanto meriterebbero. Infatti questo
lavoro non ha niente da invidiare a tanti capolavori del genere e neppure
all’acclamato splendido seguito
Dechristianize. Del resto quando non si ha la produzione stellare dei
Morrisound Studios, la spinta mediatica che comporta un nome importante come
Glen Benton e l’apporto della Century Media è difficile riuscire ad
emergere. Per questo mentre ascolto la struggente strumentale Came No Ray of
Light e sento vibrare la parte più profonda di un grandissimo musicista come
Dave Suzuki, mi lascio trasportare in un misto di rabbia,
rassegnazione e consapevolezza che la bellezza di alcune opere risiede anche
nell’essere quasi esclusivamente nell’ombra, pronte a regalare solamente a chi
lo volesse momenti di classe e passione che nessuna cosa al mondo riuscirebbero
altrimenti a ripagare.
Senza troppi giri di parole questo è un disco incredibile, brutale,
raffinato, ricco e profondo, in cui le qualità del polistrumentista Suzuki
e di Tony Lazaro vengono espresse in modo schietto, arrivando subito al
nodo della questione senza ricorrere a tecnicismi inutili. Riff ora impetuosi,
ora morbosamente cadenzati, chitarre lanciate in numerosi assoli pregevolissimi
e in break acustici ricchi di pathos, come nella splendida title-track, Dawn
of the Apocalypse, sempre pronte a ripartire con rinnovata violenza e
ispirazione. Un martellamento continuo che vede anche una prova degna di nota
del singer Thorn (efficacissimo nelle variazione growl/scream) potente ed
espressivo, e ancora una volta di Suzuki alla batteria, con uno stile
semplice ma a dir poco devastante. Con queste armi affilatissime si susseguono
macigni come l’oscura Black Magick Curse -al primo ascolto mi era sembrato
incredibile constatare arrivato alla fine del disco, che questa traccia fosse la meno
bella dei brani presenti…-, l’imponente Sanctity in Blasphemous Ruin,
con uno stacco centrale da brividi lungo la schiena, o la ferocissima Flag of
Victory. Tutte canzoni meritevoli, ognuna dotata di un particolare mood da
renderle uniche e imprevedibili, esplosioni di violenza (Behold the Throne of
Chaos) e di malignità (Societe des Luciferiens), che nonostante la
lunghezza media decisamente abbondante non annoiano, anzi, acquistano fascino
progressivamente.
A mio avviso Dawn of the Apocalypse è per certi versi meglio
anche del più famoso e lodato successore Dechristianize. Trovo questo
disco infatti più profondo, leggermente più vario e meno “pompato” dell’ultima
fatica dei Vital Remains, più viscerale e sentito delle superproduzioni e
dei filtri vocali di Benton. E dico questo pur amando incredibilmente
Dechristianize, quindi un ulteriore attestato di stima nei confronti di
Dawn of the Apocalypse, un album che è un dovere morale per tutti gli
appassionati andare a scoprire e apprezzare.
Stefano Risso
Tracklist:
- Intro
- Black Magick Curse
- Dawn of the Apocalypse
- Sanctity in Blasphemous Ruin
- Came No Ray of Light
- Flag of Victory
- Behold the Throne of Chaos
- The Night Has a Thousand Eyes
- Societe des Luciferiens