Recensione: Dawn Of The Damned

Di Alessandro Rinaldi - 12 Ottobre 2020 - 14:42
Dawn Of The Damned
Band: Necrophobic
Genere: Black 
Anno: 2020
Nazione:
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73

Era il lontano 1993 quando i Necrophobic esordirono sulla grande scena con “The Nocturnal Silence”, in piena seconda ondata del black metal, la cui forza ed oscurità riecheggiano ancor oggi. Da allora sono passati ben 27 anni, praticamente un’era, nei quali il mondo, ed in particolare quel mondo, è cambiato: mutare e sapersi adattare al contesto in cui si vive, significa salvezza, ce lo insegna Darwin.

Mark Of The Necrogram segna il primo grande cambiamento della band: un suono preciso e pulito, un cantato sempre più delineato, e metal “puro”, che non richiede il supporto di tutte quelle contaminazioni di strumenti che snaturano il genere.

In “Dawn Of The Damned”, la band ripercorre il sentiero tracciato dal suo predecessore, sin dall’aspetto più superficiale, ovvero la copertina dell’album, che sembra la stessa: un’ambientazione tra un girone dantesco e la tolkeniana Mordor, pentacolo rovesciato al centro e colore rosso fuoco dominante. Musicalmente, riprende il concetto del precedente lavoro, pulendo ancor di più il suono e rendendolo più heavy, con un cantato che rimane sostanzialmente più nitido e più chiaro rispetto agli standard del genere. Ma il grande lavoro e l’aspetto più piacevole ed interessante dell’intero album è il lavoro delle due chitarre di Bergeback e soprattutto Ramstedt, che danno più aria questo album rendendolo piacevole.

Si parte con l’azzeccatissima intro Aphelion, dal sapore anni ’80: le infernali chitarre aprono una marcia oscura che ci porta dritti verso Darkness Be My Guide, un brano oscuro e potente, che riporta il gruppo verso i fasti del passato. Mirror Black è un ottimo pezzo, che strizza l’occhio all’heavy metal: brano decisamente orecchiabile e non a caso scelto per promuovere l’album. Tartarian Winds mostra l’abilità dei chitarristi di questo gruppo, con un lavoro apprezzabile. The Infernal Depths Of Eternity è il brano più duro dell’intero lavoro, infernale, getta l’ascoltatore nel Cogito e lo seppellisce nel ghiaccio fino alla gola. La titletrack è un regalo ai fans di prima data, che sicuramente apprezzeranno questo ritorno alle origini. The Shadows, As The Fire Burns e The Return Of A Long Lost Soul riportano i nostri ad una dimensione più heavy metal. Si chiude in bellezza con Devil Spawn Attack, che vede come ospite Schmier dei Destruction.

In conclusione parliamo di un buon album, compatto, granitico ed omogeneo. L’eccessiva omogeneità è però il limite di questo lavoro poiché lo rende ripetitivo, e di conseguenza è difficile trovare canzoni che possano emergere, distinguersi e che possano farci ricordare l’album a distanza di tempo.

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