Recensione: Dawn of the Dragonstar
Tra tutte le domande che ci potremmo porre, la prima che viene in mente è come nel 2019 si riesca a registrare un disco inutile e piatto come questo Dawn Of The Dragonstar. Ma c’è davvero ancora bisogno di questa roba?
I Twilight Force non hanno mai brillato di originalità tantomeno gli è mai stata chiesta per via del genere proposto, tuttavia, anche se non hanno mai composto capolavori, qualche brano carino qua e là i ragazzi di Svezia ce lo avevano gentilmente concesso, così come un buon debut album che lasciava presagire un futuro tutto sommato ottimistico pur senza inventare nulla di nuovo.
Dawn Of The Dragonstar, terzo full length della band e il primo con l’italianissimo Ale Conti alla voce, non possiamo esimerci dal definirlo una ciofeca che rasenta il cattivo gusto e che per ascoltarlo tutto si è avuta più difficolta che fare il cammino di Santiago per intero, in ginocchio…sotto il sole.
Difficile trovare delle parole per esprimere il disagio provato nell’analizzare pezzo dopo pezzo questo full length che, composto da dieci brani (quattordici con la versione estesa), ha una durata di poco inferiore ai cinquanta minuti (un’ora e dieci di tortura nella versione deluxe) di puro delirio sonoro, che ci fa alternare stati d’animo che spaziano dall’incredulo al ribrezzo tendente infastidito per aver buttato del nostro tempo nel concedere attenti ascolti a una roba simile.
Al di là del genere proposto che può piacere o meno, qui si dovrebbe parlare di metal sinfonico? Per cortesia, il metal sinfonico è tutt’altra cosa e bisogna avere rispetto per i grandi nomi che han suonato e continuano a suonare quel genere con dedizione e abnegazione, in barba alle mode. Quello proposto in questo dischetto oseremo definirlo un polpettone avariato, un’accozzaglia di suoni messi un po’ a caso che cercano di creare atmosfere fantasy, medievali e fiere ma l’unica emozione che riesce a trasmettere è uno stato d’animo che si evolve dall’ansia alla rabbia.
Visto e considerata l’attenzione dei media specializzati verso questa band, sembra davvero impossibile ciò che è contenuto in questo disco rasenti l’imbarazzante, ma andiamo per gradi: il disco è pure suonato bene, con un bel guitar work ad alto coefficiente tecnico e di difficoltà con delle strutture complesse; il problema è che sembra tutto messo a caso senza che ci sia una struttura ben definita o un filo logico nelle composizioni o tra le composizioni stesse.
Passando alla prestazione dei singoli, non possiamo esimerci nel commentare la prova del nostrano Ale Conti, singer che si dimostra poco duttile in contesti diversi dalla sua band principale per via di un timbro vocale pressappoco identico su ogni lavoro e mancando un po’ di personalità. Pure grazie alla sua prestazione sotto le righe, contribuisce ad affossare questo dischetto al pari dei compagni di (s)ventura senza dargli quel valore aggiunto che in realtà avrebbe dovuto apportare con l’entrata in pianta stabile nella formazione svedese.
I pezzi che compongono questo full lenght lasciano spiazzati. In un genere come il power, dove i ritornelli dovrebbero fare la parte del leone, essere memorizzabili e cantabili con le braccia al cielo, qui semplicemente invogliano uno a uno allo skip più veloce della storia del metal tranne in un unico caso, l’appena sufficiente Queen Of Eternity e la successiva Valley Of The Vale, dove la melodia delle linee vocali si fa apprezzare, ma nulla più; le uniche cose che rimangono in testa dopo un accurato ascolto del platter sono gli innumerevoli sbadigli generati da queste grottesche composizioni.
Il resto delle song è in realtà un minestrone mal riuscito di orchestrazioni che svolgono il ruolo di protagonista per tutto il platter, nel senso che surclassano, con i loro trilli e scampanate da festa parrocchiale di provincia, tutti gli altri strumenti per via dei volumi altissimi rispetto sia alle chitarre che alla batteria spesso impercettibili andando a vanificare il comunque buon lavoro esecutivo della band.
Ne conviene che la produzione di questo disco è il vero fiore all’occhiello in negativo e ci iniziamo a fare delle vere e proprie domande circa i suoni ormai standardizzati delle recenti uscite discografiche, che paiono ormai aver perso la bussola circa la qualitatività in merito.
In conclusione come è stato reso sufficientemente chiaro in queste righe, Dawn Of The Dragonstar è un disco dal quale bisogna stare lontano per via della sua scarsezza compositiva che affossa la buona prestazione strumentale della band (quando si riesce a sentire tra un orpello e l’altro) e rappresenta un ricordo sbiadito della band che registrò il valido Tales Of Ancient Prophecies del 2014.
La prestazione di Conti è parecchio interlocutoria e lo fa sembrare un altro rispetto ai Trick Or Treat; speriamo riesca a valorizzare al meglio le sue collaborazioni future con uscite di maggior qualità.
Considerando fatica e dedizione di ragazzi che credono in quello che fanno, cosa che bisogna riconoscere e rispettare a prescindere da ciò che può essere il risultato finale, questo disco rappresenta una delle più brutte uscite discografiche del genere da tantissimi anni a questa parte.
Da evitare come la peste.