Recensione: Day And Age

Di Matteo Bevilacqua - 5 Giugno 2021 - 12:44
Day And Age
Band: Frost*
Etichetta: Inside Out Music
Genere: Progressive 
Anno: 2021
Nazione:
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90

Divertitevi… feccia” è il duro messaggio che traspare con tutta la sua irriverenza non appena avviati i primi secondi di Day And Age, quarto full length dei britannici Frost* entrati di diritto nella lega dei maestri del neo progressive rock. Nonostante le velate accuse di essere figli della loro epoca, digitalmente perfetti (non nel senso buono del termine) e ipercompressi, questo supergruppo ha saputo confezionare momenti memorabili di storia del genere tra cui il debutto Milliontown e il più recente Falling Satellites  in cui emerge un approccio fresco alla composizione, dove momenti di puro progressive si mischiano con sapienza ad altri più propriamente pop mostrando una preparazione musicale e strumentale superiore alla media, nonché un senso dell’ironia tipicamente british nei testi. Day And Age vive della coesione di tutti questi attributi ed è forse il primo album in studio a sfruttare così apertamente il profondo senso dell’ironia e dell’umorismo della band affrontando alcuni temi pesanti, spesso in modo scherzoso, ma senza mai banalizzarli.

Avendo perso lo storico batterista Craig Blundell, la band ora composta da Jem Godfrey (voce, tastiere e produzione), John Mitchell (chitarra, basso e voce) e Nathan King (basso, tastiere e voce) ha reclutato dietro le pelli tre eccellenti turnisti, vale a dire Kaz Rodriguez (Chaka Khan, Josh Groban), Darby Todd (The Darkness, Martin Barre) e il leggendario Pat Mastelotto (King Crimson, Mister Mister). Si tratta davvero una formazione impressionante e una cosa è chiara: i sopracitati musicisti sanno sicuramente come divertirsi. Musicalmente “Day And Age” cattura immediatamente e ci trascina nell’universo Frost* regalandoci una superlativa prova di composizione, tecnica e sentimento. Pochi musicisti al giorno d’oggi hanno la capacità di essere appetibili a un pubblico progressive pur mantenendo una naturale sensibilità pop.

L’elemento narrante “Enjoy yourself…” che si presenta all’apertura della title track potrebbe sconcertare alcuni ascoltatori. Sebbene questo possa essere interpretato come un saluto rassicurante, il significato è inteso come una banalità beffarda e bugiarda che chi esercita il potere potrebbe esprimere ingenuamente. Ecco rivelata quindi la seconda metà della frase, “… feccia“.  Il video animato uscito per la edit version favorisce questo senso di dissonanza percepito durante l’atto quotidiano di essere umani mentre si cerca di vivere in un mondo conflittuale, suggerendo il concetto di beata ignoranza.  Nella strofa il brano risente in più momenti delle inevitabili influenze dei Police (già notabili in “Numbers”, dal precedente Falling Satellites) in cui la voce suadente di Godfrey  è supportata da cori efficaci e synth-pad eleganti. Il ritornello spiazza per la facilità con cui la linea vocale conferisce ulteriore immediatezza al riff inziale già orecchiabile di suo per cui la combinazione dei due elementi diventa talmente memorabile da fissarsi inesorabilmente in testa con lo scopo unico di tornare a tormentarci nelle ore successive all’ascolto. I quasi 12 minuti di questa opener scorrono con una tale rapidità e fluidità per cui il termine di paragone più azzeccato potrebbe essere “Arriving Somewhere But Not Here” dei Porcupine Tree.

 

 

“Terrestrial” esordisce con dei noise fx e una parte vocale leggermente asettica e al primo ascolto non rende l’idea della direzione che la band intende percorrere. Ecco sopraggiungere la magniloquenza di matrice math-metal senza infamia e senza lode dove ancora ci si domanda dove si vuole andare a parare. Il groove aggiunge strati e la ripetizione delle sequenze conferisce il senso che pareva mancare. Ma il bello deve ancora venire: attorno a metà brano l’apertura melodica, con un bel lavoro al basso di Nathan King, crea la base per un’esplosione rock dai colori multi-sfaccettati seguita da un groove accattivante su cui si stratificano dei cori ostinati sulla vetta dei quali la voce di Mitchell si erge con elegante bellezza. La pesante elettronica finale completa il pacchetto e in appena 5 minuti i Frost* ci hanno accompagnati in un viaggio inaspettato e pienamente convincente. Come avviene di consueto, il piacere cresce con l’aumento degli ascolti.

In “Waiting For The Lie” siamo accolti da un pianoforte ostinato e da un’atmosfera alla Anathema arricchito da una sezione d’archi che nel suo incedere inesorabile cresce in dinamiche fino al limite per poi sprofondare in un breakdown in cui la voce è intima e delicata. Segue una nuova impennata in cui è davvero impressionante l’escalation di intensità della voce squisitamente pop. Molto evocativa la successiva “The Boy Who Stood Still” che mostra il vero lato elettronico dei Frost*. L’atmosfera ampliata dalla voce narrante tiene attaccati alla sedia. Il groove è incalzante e nel momento in cui esplode con tutta la sua potenza ci si chiede se non ci troviamo in una produzione di Michael Jacskon dei tempi di Quincy Jones. Splendida la linea vocale, supportata da cori sempre all’altezza. Fenomenale la sezione ritmica con accenni di chitarra fusion che montano fino ad un breakdown creato con la sola intenzione di stimolare il desiderio di ritornare al groove per ricevere altri momenti di esaltazione. Desiderio esaudito, eccolo che si ripresenta. Questa è perfezione.

Con “Island Life” i nostri partono sulla falsa riga della title track (nuovamente presente lo spettro dei Police) ma in maniera più diretta rendendo il brano un potenziale singolo. Le ritmiche serrate lasciano spazio a chitarre in levare eseguite con una rilassatezza quasi reggae mentre il lavoro più impressionante è a cura del basso di Nathan King, volutamente in avanti nel mix. Il ritornello è uno di quelli da cantare sotto la doccia, enfatizzato dal tormentone finale, dove Mitchell pare quasi un Peter Gabriel che narra testi oscuri e apocalittici attraverso una melodia orecchiabile. Questo è sicuramente il brano più diretto dell’album, pop-rock di classe come avrebbero potuto presentare a suo tempo i Mr Mister. L’inizio inquietante ed evocativo di “Skywards” ci porta ad un nuovo ritornello estremamente orecchiabile che ricorda i lavori di Phil Collins. Ancora una volta i Frost* catturano per il lato melodico sempre predominante. Brano bello nel complesso, ma rispetto alla media dell’album forse il più trascurabile anche se siamo sempre nell’ambito dell’eccellenza.

Ed eccoci ad uno dei momenti focali del platter, “Kill The Orchestra”. Un intro di sola voce leggermente effettata accompagnata da un rhodes piano che esegue una serie di accordi che spiazzano uno dopo l’altro come se fosse la cosa più naturale del mondo, una di quelle sequenze musicali uniche in cui ci si domanda come sia potuta essere stata concepita. Quando attacca il resto della band siamo già nel pieno del turbine emotivo per cui il crescendo che ne deriva è un dato di fatto: ciò che segue oscilla da un groove-prog di classe, passando per esplosioni noise dissonanti, ritornelli di scuola alt-metal e nuovi accordi inaspettati, impreziositi dalle sempre presenti ed eleganti tastiere di Godfrey. Il tema iniziale ripreso con la band al completo è pura goduria. Poi il genio: ritorna il riff della title track con il solo scopo di riportarci alla condizione iniziale e lo fa servendosi di un’inquietante voce bisbigliata che ci ricorda di rilassarci e goderci la vita. Un ultimo motivetto intrigante eseguito con insistente ripetizione ci conduce alla fine del viaggio. Lo stesso tema si ripresenta come centro dell’ultimo brano  “Repeat To Fade” in cui l’eco floydiana è particolarmente spiccata nel ritornello, una sorta di nuova “Welcome To The Machine”. Nel sottofondo ascoltiamo la frase “everything is OK, you scum” questa volta urlata con una malsana disperazione. La musica segue appunto il diktat del titolo e la sensazione è quella di costante e nauseante ripetizione… Nonostante il concetto di divertimento possa sembrare attraente, nel mondo di Day And Age è utilizzato in molti modi, dall’umorismo più leggero alla circospezione più oscura. Questa voce fuori campo, che si presenta spesso in modo ingegnoso, dà il tono perfetto all’esperienza di ascolto partendo dal leggero sarcasmo della bambina a inizio album fino a diventare terribilmente angosciante nel finale.

Non c’è un solo momento in cui Day And Age risulti stantio, sicuro o prevedibile. Questo è un album che fa rapidamente perdonare e dimenticare il fatto che siano passati cinque anni dall’ultimo full length invitandoci in un viaggio immensamente soddisfacente. Dettaglio interessante: non vi è traccia di assoli di chitarra. Gli sgargianti suoni elettronici di Godfrey sono onnipresenti come al solito, ma non vediamo alcuna corsa funambolica o la consueta teatralità da guitar hero di Mitchell. Si tratta di una sfida deliberata e autoinflitta dalla band che sorprendentemente finisce per avere successo.

Volendo discostarsi per un secondo dal tema trattato da quest’ultima fatica firmata Frost*, a volte è consentito gridare al miracolo. A volte l’ingegno, la creatività e l’intuito sono tali da permetterlo. A volte la mente umana partorisce prodotti di tale intensità che assumono l’intrinseca qualità di migliorarti la giornata e, di riflesso, la vita. Ascoltando questo Day And Age è consentito divertirsi per davvero.

 

Ps è disponibile anche una versione dell’album con bonus disk e tracklist interamente strumentale.

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