Recensione: Days Of The Lost
Mikael Stanne, Niclas Engelin, Jesper Strömblad, Peter Iwers, Daniel Svensson: cantante dei Dark Tranquillity, ex chitarrista degli In Flames più recenti nonché dei mai abbastanza rimpianti Gardenian e 3/5 della formazione storica non caricaturale degli In Flames. Quanti di voi, una ventina di anni fa, avrebbero fatto carte false per possedere un disco inciso da una formazione del genere? Il momento è arrivato, e Days Of The Lost è finalmente nelle nostre (e vostre) mani! Ci sono tutte le premesse per fare bene, considerati i nomi coinvolti; come sempre però le grandi aspettative vengono smentite e non tutte le ciambelle riescono col buco, soprattutto quando nel metal si parla di “super-gruppi”.
Il primo vagito dei The Halo Effect è in fin dei conti un buon disco: ben prodotto, ben suonato, ben arrangiato e queste cinque vecchie volpi del melodeath sembrano suonare a memoria. La sezione ritmica di Peter e Daniel è inconfondibile, come lo sono i riff di Jesper; la voce di Michael è da sempre un marchio di fabbrica e il puntare su di lui non è mai un errore. Tralasciando i processi alle intenzioni, che non hanno quasi mai senso, quello che ci troviamo davanti soddisfa ma fino a un certo punto.
Days Of The Lost è un disco che offre tutto il largo spettro di sfumature del Gothenburg sound che conta ed è a tutti gli effetti un tuffo nel passato zeppo di citazioni, ma anche di deja vu. Si va da Colony a Clayman, da Damage Done a Moment, e a volte si ha l’impressione che alcuni brani vengano proprio dalle sessioni di quest’ultimo. La quasi totalità dell’album è infatti incentrata sui mid tempo, anche se in maniera molto più varia rispetto al piattume ritmico dell’ultimo Dark Tranquillity; si prova in qualche frangente ad aumentare il tiro ma c’è sempre qualcosa che tira indietro e riporta a lidi più facili e catchy.
Uno dei problemi dell’album è proprio questo: l’essere concepito per piacere a tutti, rischiando però di non piacere a nessuno. Con la mancanza di Anders Friden si pensa di essere finalmente esenti da clean vocals di bassa lega, invece fanno capolino anche qui in un paio di brani, francamente evitabili.
Quando artisticamente si è fuori tempo massimo, l’unica maniera per imporsi è il presentare grandi, grandissimi pezzi; il peccato originale dei The Halo Effect è quello di averli composti solo discreti, e purtroppo anche la longevità del tutto ne viene inevitabilmente penalizzata. Shadowminds, The Needles End, Conditional, le cartucce migliori sono tutte sparate nella prima parte del lotto e, invece di rimanere stupito, l’ascoltatore più e più volte si trova davanti a un “questo l’ho già sentito”. Tutte le soluzioni di Days Of The Lost sono già state usate e sfruttate al parossismo, e il livello di gente come i Soilwork è qui un lontano miraggio.
Quel che rimane è un ascolto piacevole, che scorre via piuttosto bene ma senza mai mordere, un bello senz’anima. Speriamo che il progetto non sia solo un episodio isolato ma una band vera e propria; questi cinque insieme possono e devono fare di più, e sarebbe piuttosto ingrato che questo disco passasse alla storia come uno dei tantissimi figli del covid persi in un limbo artistico destinato all’oblio.