Recensione: De Horae Leprae
Tornano i canadesi Délétère, discepoli di The Crawling Ones (“The Worm that Walks”), uno dei Grandi Antichi della mitologia lovecraftiana, con un concept-album dedicato a Teredinis, un lebbroso la cui ambizione è quella di diventare un profeta del Chilopoda, nonché l’incarnazione della peste.
Una concezione orrorifica che il combo del Quebec esprime con la forza e la potenza del symphonic black metal, come si può immediatamente intuire dall’incipit dell’opener-track ‘Cantus I – Teredinis Lepra’, scandito dall’invisibile forza visionaria di un organo da chiesa.
La musica dei Délétère esprime grande aggressività, quando travolge con i suoi violentissimi blast-beats, ma anche sensazioni fosche, paurose. Come se i testi, rigorosamente in francese, fossero delle blasfeme invocazioni a Esseri Supremi provenienti da misteriose regioni al di fuori dell’Universo conosciuto. Una musica imbastita su una struttura piuttosto classica, non particolarmente originale quindi, ma di buona efficacia e di sicura presa: le arcane armonie dei Nostri riescono a materializzare abissi di disperazione e di sconforto, antri immensi e tetri ove si percepisce sulla pelle la sensazione di pericolo incombente, imminente, mortale.
Del resto, i quebecchini non sono particolarmente melodici in senso stretto. Le roboanti cavalcate sonore che intasano l’etere presentano caratteri di linearità compositiva ma non giungono mai a generare facili costruzioni armoniche, tantomeno orecchiabili, di facile assimilazione. A parte qualcosa del genere in ‘Cantus V – Figura Dysphila’, “De Horae Leprae”, secondo full-length in carriera del quintetto nordamericano, funge da colonna sonora per le tappe di un’eretica adorazione di un culto volto alla tenebra e quindi, correttamente, evitando costrutti che diano, al contrario, l’idea di qualcosa di elegiaco.
Il furore che alimenta i nove canti del platter, cioè i brani, non accenna mai a sopirsi, per fornire – proprio – una visone gigantesca della divinità profanatrice, tralasciando accordi che potrebbero indurre coinvolgimenti emotivi positivi. Una negatività, insomma, che si materializza in un vero e proprio mostruoso muraglione di suono, dai confini indefiniti nelle tre dimensioni spaziali. Per ciò, il vocalist Thorleïf – quasi un cantore più che un cantante – conduce con foga e veemenza i suoi compagni a mantenere immutabilmente elevato il livello di pressione sonora.
Anche i rallentamenti e le aperture del ritmo (‘Cantus III – Ichthus Os Tremoris’) non offrono spunti a felici riflessioni su quello che è l’Umanità, e su dove stia inesorabilmente andando a finire. L’energia annichilatrice di canzoni quali ‘Cantus VIII – Atrum Lilium’, tuttavia, suggeriscono un futuro senza speranza, il cui unico finale è l’auto-annientamento della razza umana. L’incessante impetuosità di un suono enorme suggerisce la percezione degli ultimi istanti di vita dell’Uomo, con l’avvento dell’orrida Creatura a regnare sulla peste che, inesorabilmente, grazie a Teredinis, affliggerà i pochi sopravvissuti allo sterminio totale.
Se davvero visionario, ricchissimo di particolari da ascoltare con calma, “De Horae Leprae” non convince invece appieno per via di un songwriting forse troppo ridondante ed eccessivo. Tale, cioè, da rendere il disco stesso difficilissimo da inquadrare in coordinate stilistiche da mettere a fuoco, da mandare a memoria. Con ciò, rendendo l’Opera leggermente lunga, leggermente sfilacciata.
In ogni caso, un lavoro enorme a tutti i livelli (composizione, esecuzione, produzione) che non può essere liquidato con superficialità. Va ascoltato, e ascoltato, e ascoltato… e, magari, premiato.
Daniele “dani66” D’Adamo