Recensione: Dead Revolution
Se la prendono comoda gli Hammers Of Misfortune di John Cobbett, visto che Dead Revolution arriva a distanza di cinque anni dal precedente 17th Street. Ritardo in parte dovuto a problemi personali (l’incidente in motocicletta del cantante Joe Hutton, la nascita di un figlio per Cobbett e la tastierista Sigrid Sheie), impegni con altre band (il batterista Will Carrol prestato ai Death Angel), non ultima la pignoleria dello stesso Cobbet nel sistemare al meglio la covert art. Ma poco importa, visto che le luci della ribalta e il mainstream non sono la priorità della band. La priorità per gli Hammers Of Misfortune è quella di creare musica di qualità, complessa, significativa, progressiva nell’accezione letterale del termine. Lo dimostra la loro discografia passata, attraverso concept intriganti e musicalmente vari come The Bastard o Fields/Church Of Broken Glass. Non c’è mai niente di scontato nella loro proposta, e va detto che John Cobbet è forse uno dei chitarristi e compositori più sottovalutati della scena. Dead Revolution incarna in pieno il credo musicale degli Hammers Of Misfortune, proponendo sette nuove tracce, come al solito tutte mediamente lunghe oltre i sei minuti, dove la ricchezza musicale la fa da padrone.
The Velvet Inquisition apre la tracklist senza indugi, con un bel riff spedito dal sapore thrash, ma all’interno dei suoi oltre sette minuti, abbracciamo subito quella ricchezza musicale di cui sopra, tra un hammond che richiama i Deep Purple sia accompagnando la progressione sia innescando begli assoli, squarci di melodie che richiamano i Beatles e parentesi psichedeliche degne dei Pink Floyd. Tutto mescolato nel metal, ovviamente. Le vocals forse rappresentano un punto migliorabile, per certi versi sono simili a quelle dei Mastodon, ma nell’insieme funzionano.
La titletrack porta in dote l’organo che si intreccia con i riff di Cobbet, e compare anche il “campanaccio” alla batteria, in un rincorrersi di note che è un piacere, con la melodia sempre presente e tenuta in primo piano. Sea Of Heroes è più cadenzata, con vocals stratificate e ancora i contrappunti dell’hammond aviaggiare insieme alla sei corde.
L’avventurosa The Precipice è una traccia che piacerebbe a Mikael Akerfeldt per i suoi “nuovi” Opeth, vista la capacità di catturare lo spirito prog settantiano trasmigrandolo nell’attualità senza risultare né soporiferi né pretenziosi. Così il viaggio musicale procede tra parti acustiche, come in Here Come The Sky, decisamente Floydiana (bello il finale western con le trombe), stacchi per voce e organo, inserti folk, assoli di gran fattura che devono molto alla lezione impartita dai grandi classici come Iron Maiden e Mercyful Fate, voci femminili che si inseriscono nelle parti più sognanti.
Flying Alone è la traccia più ruggente, una cavalcata la cui struttura sonora, maggiormente lineare rispetto alle altre composizioni, è divisa ancora tra Maiden e Deep Purple. L’evocativa Days of ’49, dal sapore viking alla Bathory, graziata dagli ennesimi assoli vibranti di Cobbett e un gran coro finale, chiude alla grande Dead Revolution. Un album di certo non facile e che va preso a dosi, dedicandogli il tempo necessario per assimilarlo, e non è detto che si arrivi mai a carpire tutte le sfumature che racchiude, ma sono questi i dischi che rimettono in discussione canoni già fissati e li rielaborano con classe grazie alla perizia tecnica e compositiva degli interpreti.
Magari gli Hammers Of Misfortune non saranno mai decantati come le band citate nella recensione, ma questo non vuol dire che siano da meno, anzi.