Recensione: Deaf, Dumb & Blonde
“Sorda, muta e bionda”, si ripresenta così sulle scene Erika Norberk, in arte Erika, che già aveva infiammato i cuori dei soft e hard rockers a partire dal 1989 quando – già sposa di Yngwie Malmsteen – approda al suo esordio discografico “Cold Winter Night”. Seguono altri 4 album, sempre più orientati verso il pop rock, che ovviamente fanno faville in Giappone (dove per la verità fa faville qualsiasi cosa, purché respiri), oltre ad un singolone natalizio che manda in brodo di giuggiole la natìa Svezia (“When Christmas Comes To Town”). Poi tutto tace, il mondo non sembra ricordarsi più di Erika (come cantante, visto che tra le sue varie incarnazioni ci sono pure quelle di fotomodella e giornalista), fino al 2016, quando la Nostra torna prepotentemente alla ribalta con un disco nuovo di zecca, prodotto da Alex Angleflod e che vede la partecipazione di diversi ospiti di prestigio.
Perché dico “prepotentemente”? Perché l’artwork del CD e le foto contenute nel booklet mostrano una certa “arroganza” delle forme, se così si può dire. Erika non è rimasta a guardarsi invecchiare allo specchio; rimessa in sesto la carrozzeria mediante apposito tagliando, la Norberg ha deciso di sfoderare tutta la propria grinta canterina per riprendersi un posto di rilievo nel panorama delle rock ladies ancora in attività. Del resto, se fate mente locale, è in buona compagnia. Negli ultimi anni sono rientrate in pista (e con ottimi album che caldeggio fortemente) anche Fiona, Cherie Currie, Pamela Moore, mentre le sorelle Wilson (Heart), Stevie Nicks, Robin Beck, Lita Ford non ci avevano praticamente mai lasciato, pur navigando tra gli alti e bassi del music biz.
Erika insomma vuole essere della partita, e per raggiungere obbiettivi ragguardevoli si è circondata di nomi che contano. Al songwriting sfodera Matti Alfonzetti, Leif Edling, Jesper Stromblad, non si lascia spaventare da una produzione affatto nostalgica e retrò, ma anzi spinge decisamente il piede sull’acceleratore della modernità. Attenzione a non essere tratti in inganno però, le canzoni non fanno il filo a nessun trend usa e getta del momento, Erika non si dà all’industrial, all’alternative, o al post-core-vattelappesca; “Deaf, Dumb & Blonde” è un sano album di rock come se ne facevano una volta, senza però l’effetto ruffianianeria à la carte, ovvero senza cercare di imitare quanto più possibile le tonalità calde e magari eigthies della golden age dell’aor/rock a stelle e strisce. Siamo al cospetto di un album insospettabilmente crudo, asprigno e disadorno. Non ci sono patinature o sete damascate, niente pizzi e vellutini morbidi; Erika a tratti sconfina financo nell’heavy metal (“Warhoney” – scritta da Edling – non sarebbe dispiaciuta a Ronnie James Dio). Lascia che delle tastiere sintetiche sporchino le chitarre, ma al contempo non ne abusa occhieggiando a territori troppo lontani dal rock.
Il baricentro insomma è ben saldo nei confini della musica cara ai bikers e ai capelloni che amano il denim & leather (e un décolleté florido e ricco di favolose promesse). Nella loro efficace semplicità, alcuni chorus sono davvero micidiali, mi riferisco ad esempio a “Killer”, “Suckerpunch”, “Once Upon A Time”, “One For The Road”. Erika non si abbandona a ballate facili facili e zuppe di miele, da elegante marchesa di una certa età; piuttosto scende in strada col tacco 12, pronta a menar schiaffoni a chiunque intenda appellarla con epiteti poco consoni (nonostante l’aspetto non ricordi affatto quello di una pia orsolina). L’album viaggia compatto e del tutto convincente, per un risultato finale che, tra pesi e contrappesi, costringe l’ascoltatore a pronunciarsi con un pollice inevitabilmente alto. Pur con tutte le maliziose e pregiudiziali preclusioni con le quali potreste avvicinarvi ad un disco costruito per piacere, a cominciare dalla tutt’altro che “piatta” copertina, dovrete ammettere di essere capitolati al cospetto di “Deaf, Dumb & Blonde”. La rock Milf Erika ha messo a segno una zampata coi fiocchi e non rimane che sperare che questo ritorno sia solo il primo passo del secondo tempo della sua carriera 2.0.
Marco Tripodi