Recensione: Death Atlas

Di Daniele D'Adamo - 29 Novembre 2019 - 0:02
Death Atlas
Etichetta:
Genere: Death 
Anno: 2019
Nazione:
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90

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Il concetto chiave di questo disco è l’insignificante rilevanza, nell’Universo, dell’Umanità; nonostante essa sia convinta del contrario. 

[Travis Ryan]

‘Anthropogenic: End Transmission’, intro ambient dal vigoroso sapore cinematografico, ed è poi il massacro: ‘The Geocide’, e i Cattle Decapitation scatenano tutta la loro mostruosa forza disgregatrice. Assalto sonoro totale, così come totale è l’annichilazione. Davvero il genere umano sembra de-molecolarizzarsi e perdersi nel vuoto cosmico, di fronte a un simile, infinito assalto musicale frontale.

Così comincia “Death Atlas”, ottavo capitolo della storia dei Cattle Decapitation, band statunitense che ha ben pochi altri avversari, nella salita alla più alta vetta qualitativa del death metal.

Death metal ricchissimo di influenze, fra le quali si possono citare il black metal e, perché no, il melodic death metal. Poiché, frammentati nelle membrature della titanica matrice che forma l’ossatura principale su cui si erge la complicata, massiccia, titanica sovrastruttura di un sound unico al Mondo, si possono individuare parecchie formazioni armoniche, tese a inspessire all’inverosimile un suono debordante, massacrante, brutale e violentissimo. Sciabolate di blast-beats sferzano l’aria, sprigionando scintille infuocate a supporto dell’altra strumentazione in mano ai cinque  cavalieri imperiali dell’Apocalisse; fra i quali occorre citare i nuovi arrivi Belisario Dimuzio alla chitarra e Olivier Pinard al basso. Senza dimenticarsi di Travis Ryan, che offre un cantato senza eguali. Fondamentalmente si tratta di un folle, scellerato, lisergico screaming, intersecato tuttavia sia da growling, sia da clean vocals dal tono immensamente stentoreo e, non ultimo, sia da abissale inhale.

Inumano il riffing messo in piedi dai due chitarristi Dimuzio e Josh Elmore, impegnati i sublimi passaggi sia in chiave ritmica, sia nell’interpretazione degli assoli. Riffing che, aggregato al bombardamento nucleare attivato dalla rimbombante rotazione del basso e alla furia demolitrice del drumming di un pazzesco David McGraw, erige un muro di suono infinito nelle sue dimensioni spazio-temporali. Incredibile, da sogno, da godimento assoluto, giusto per fare un esempio in mezzo a una moltitudine di tantissimi altri, il terrificante riff segaossa che trita letteralmente i timpani nel break centrale di ‘With All Disrespect’.

Alcuni intermezzi, sempre ambient, come ‘The Great Dying’ e ‘The Unerasable Past’, identificano le necessarie pause in mezzo a canzoni che strappano letteralmente la pelle dalla carne per via di una pressione sonora senza precedenti (‘One Day Closer to the End of the World’), raggiunta, almeno a parere di chi scrive, solo da pochissimi, altri scellerati act come gli innominabili Anaal Nathrakh e Myrkskog.

Ciò che ne esce è uno stile clamorosamente originale nella sua globalità. Una nota, e si sa subito con chi si ha a che fare: i Cattle Decapitation! Pregio sublime che svetta altissimo accanto a mirabolanti pinnacoli di nubi all’orizzonte, donando alla formazione di San Diego il carattere dell’unicità. E, tornando alla melodia, incredibilmente, dato il sound assolutamente inarrivabile in quanto a esagerazione – controllata – sonora, sorgono dal mare di watt che ribolle e sciaborda nel cervello, song inconcepibilmente orecchiabili come la stupefacente ‘Bring Back the Plague’ o, addirittura (sic!) l’hit ‘Time’s Cruel Curtain’.

L’intensità sonora raggiunge i massimi livelli concepibili dalla mente umana, e ‘Absolute Destitute’ ne è la devastante dimostrazione. Si entra, allora, nel Regno della trance da hyper-speed, luogo astratto ove gli elementi cinetici assumono valori fuori scala, perlomeno per quanto riguarda i sensi umani, allo scopo primigenio si staccare la mente dal corpo onde immergerla in un sublime stato di completa allucinazione. Il tutto mantenendo altissima la potenza di un suono che pare non aver mai fine, in quanto a stravolgente frantumazione degli atomi che compongono la materia. Il combo californiano vi si infila dentro, roteando a velocità iperboliche assieme agli elettroni per configurare qualcosa di insuperabile da chiunque (‘With All Disrespect’). E così è: al momento, in pieno 2019, i Cattle Decapitation non hanno rivale alcuno in grado di superarli negli estremi più estremi del metal… estremo.

Canzoni meravigliosamente riconoscibili, diverse le une dalle altre ma obbedienti e fedeli al perfetto stile che le comanda; potenza alle stelle; immane competenza sia tecnica sia artistica; songwriting di grande talento (‘Death Atlas’); energia infinita; totale allucinazione; complessità in grado di essere elaborata da ben pochi altri sul globo terracqueo; sfascio integrale; terminazione.

Impossibile volere e pretendere di più: i Cattle Decapitation sono il massimo. In tutto e per tutto. Sono il death metal della terza decade del secondo millennio. “Death Atlas”, il loro capolavoro.

Daniele “dani66” D’Adamo

 

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