Recensione: Death Curse
I Gravehill sono una band californiana attiva nel panorama del death metal dal 2001. Più precisamente potremmo identificare come data ‘ufficiale’ il 2007 visto che riguardo gli esordi siamo a conoscenza solo dell’EP “Practitioners Of Fell Sorcery”, dopodiché si sono perse praticamente le tracce. E proprio nel 2007 la band viene rimessa in piedi dall’unico membro originale, il batterista Thorgrimm, che recluta il bassista/cantante Abominator, Zyklon A e Bodybag Bob alle chitarre per l’incisione del primo full-length “Rites Of The Pentagram” del 2009. E dopo gli avvicendamenti nelle sei corde e l’aggiunta del bassista J.T. Corpse per lasciare piena espressione ad Abominator per la parte vocale, la band dà alle stampe il seguito “When All Roads Lead To Hell” del 2011.
Poco dopo la sua uscita l’inserimento dei chitarristi Hell Messiah e CC DeKill ha contribuito a tener vivo il riffing killer che li ha condotti fino all’attuale “Death Curse”, che non lascia alcun dubbio sul credo e sull’orientamento del quintetto. Band che non lascia minimamente adito a compromessi, a partire dalla scrittura fino ad arrivare al sound: non sono ammesse tecnologie e missaggi che possano compromettere il suono grezzo di cui la band si vanta a gran voce.
Non c’è che ricondurre la band ad act quali Possessed, Venom, Nunslaughter e affini per ricollegare la marea di riff che si espandono per i suoi trentasette minuti. Le ritmiche spaziano tra l’ondata svedese dei primi Entombed (“Fear The Reaper“) e le decelerazioni degli Autopsy di Chris Reifert (“Open Their Throats”), il tutto farcito dai soli chitarristici di puro stampo heavy (“Crucified”, “The Ascending Fire”).
Insomma un mix di linguaggi e stili che non dispiace affatto, considerando la voce di Abominator la punta di diamante della band, e per profondità e per coinvolgimento. Nuda e cruda si dimena in urla e deliri che solo gli amanti della old-school possono apprezzare. I brani si susseguono in maniera naturale, proponendo sempre un tiro assassino, che a volte sfocia in soli melodici di chitarra, altre in virtuosismi d’inizi anni ’80.
Insomma, un disco non eccelso, ma piacevole, che se fosse uscito a fine anni ’80 avrebbe fatto furore. Oggi, purtroppo, siamo sommersi da realtà che si districano in maniera eccelsa tra death metal ‘e dintorni’, e, al momento, non credo Death Curse sia un disco capace di imprimersi nella memoria, soprattutto per le composizioni, che non regalano nessuno sprazzo di novità, laddove molte band odierne provano (perlomeno) a farlo.
Vittorio “versus” Sabelli
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