Recensione: Decadance
Dal nulla… si materializzano dal nulla e portano con sè una grandissima sorpresa. Non avevo mai avuto la fortuna di sentire questo nome (nè di fama nè di fatto) e mai avrei pensato (o sperato) che l’evento fosse così piacevole. Estro creativo e genialità sono due componenti che viaggiano di pari passo in questa composizione, molto ambiziosa ma anche all’altezza dell’obiettivo implicito: riportare in vita il lato più progressivo e pazzoide del Death Metal, tracciando una linea di separazione da tutti quei gruppi che nel tentativo sono riusciti unicamente a scadere nella più imbarazzante banalità. E ancora una volta è un nome pressochè sconosciuto a riuscire nell’impresa (dico ‘ancora’ perchè ho in mente i francesi Dungortheb): Wayd.
I primi ascolti sono difficili, tortuosi, poco appaganti. La ricompensa arriva solo per l’ascoltatore paziente, che ha la voglia di penetrare il significato delle note di queste tracce; per chi riesce a sostituire alla fredda analisi la passione e l’emotività che il gruppo ha trasformato in musica.
Non immaginatevi infatti un gruppo attento solo alle sfumature tecniche; eppure questa è la prima impressione che si ricava. Ci si scontra addosso a un muro di anomalie, tecnicismi, apparente distacco, improbabili ricerche. Con calma si penetra l’essenza di queste canzoni e si arriva a scoprirne la bellezza.
Anomalie: “Decadance“, primissima traccia, dall’andamento diretto ma pazzoide. Gli arrangiamenti vanno a recuperare melodie provenienti da chissà quale mondo musicale, si appoggiano ad una struttura chitarristica già di per sè fuorviante, e solo dopo qualche minuto si aprono su qualcosa che ci rimetterà a nostro agio.
Tecnicismi: mai esasperati, tuttavia presenti. Eppure non sono note ammucchiate su e intorno ad altre note secondo il criterio, da sempre vigente in certi ambiti del metal, della “spettacolarizzazione”. Mi fermo per non scadere in retorica e vi consiglio l’ascolto della rabbiosa “Velvet Deserts“, dove prenderete coscienza in primo luogo della raffinatezza della loro tecnica, e poi, per l’ennesima volta, di quanto questa sia in primis un mezzo da destinare a fini ben più nobili.
Distacco: l’apertura stranamente comune di “Dreamless“, auspicabile per un gruppo standard ma apparentemente mal centrata in questo caso, lascia presto posto alla vera natura di questa canzone. Qui gli Wayd attraverseranno le sonorità più disparate, partendo dai vaghi richiami ai Death, arrivando addirittura, passatemi il paragone, ai nostrani Zona. E il distacco suggerito dai primi ascolti lascia presto spazio all’ennesima ammissione di genialità nel legare in un’unica trama influenze così disparate.
Improbabili ricerche: prima con “Dust“, meglio ancora con “Die Laughing“, si ripescano vecchi fantasmi appartenenti ad un passato che la scena aveva quasi seppellito. Si va alla ricerca delle contaminazioni di band seminali come i Cynic, si mescola il tutto con rabbia e un pizzico di pazzia. Le tracce poggiano prima sulle classiche strutture Death, poi sul loro opposto, e in questo continuo spostarsi si perde in fretta l’equilibrio, in maniera molto, molto piacevole…
…piacere che culmina in “Breaking The Ascendence“, un pezzo su cui le parole si possono solo sprecare. Intenso, caldo e coinvolgente. Ma mi fermo qui. Ho detto tutto e niente su quel che Decadance mi ha lasciato; è un’impresa disperata riuscire a raccogliere le sensazioni che gli Wayd trasmettono. L’unico difetto del loro lavoro è stato voler mettere troppe idee in un unico album, lasciando a volte veramente spiazzati. Ma per uscire dal solito giro di gruppi e generi, sarebbe un vero e proprio demerito da parte mia non indicarvi questa nuova produzione per la semi-underground Megal Age Productions come uno dei lavori più meritevoli di tutto il 2004!
Matteo Bovio