Recensione: Decadent

Di Eric Nicodemo - 27 Gennaio 2015 - 8:00
Decadent
Band: U.D.O.
Etichetta:
Genere: Heavy 
Anno: 2014
Nazione:
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77

Quando ascoltai per la prima volta Udo, provai una sensazione particolare: la sua voce rauca e gracidante era un ringhio che superava la caricaturale statura del personaggio, donandogli un carisma unico. Questo accadeva ai tempi della gloria, quando il mitico tarchiatello ci dominava dondolandosi sulla palla del video di “Balls To The Wall”. Oggigiorno, con cadenza quasi biennale, Udo prosegue il percorso solista e, senza troppo curarsi del mercato modaiolo, rimane il padrino assoluto dell’heavy teutonico.

Decadent” è, dunque, l’ennesima incursione per ricordare che nella vecchia Germania c’è ancora posto per la nostra musica “old style”. In questo panorama, dove la scena risente di un certo ristagno, il cuore metallico di Udo batte ancora forte e sano. Una salute invidiabile, documentata dall’arrabbiatissima “Speeder”, solcata da impennate soliste di derivazione epic/power.

Nell’immaginario di herr Dirkschneider c’è sempre spazio per un groove ipnotico dai tempi medi, versione indurita della vecchia scuola hard rock. L’identikit del Nostro si completa con quel tocco di melodia drammatica catturato dai cori, magistralmente diretti da Udo nella title track. Non manca, dunque, alcun ingrediente della classica ricetta, rendendo plausibile la presenza di doppioni nella folta discografia del complesso. Tuttavia, se le corse di “House Of Fake” hanno esito risaputo, l’energia dell’esecuzione e i cambi di tempo smuovono la monotonia di casa, tra un riff corazzato e uno slancio neoclassico.

Tra queste certezze è un piacere scoprire la cupa e minacciosa “Mystery”, dove la band gioca con distorsioni e sintetizzatori per creare un’atmosfera malata da carrozzone pieno zeppo di freaks umani. Il mistero della vita citato da “Mystery” appare uno scherzo della natura quanto il coro anomalo, storpiato in una melodia orecchiabile ma grottesca e bizzarra, resa tale da chitarra e synts in un intreccio stralunato.

Tralasciando l’effetto noir, il protagonista resta il solito, inguaribile romantico: basta quindi la parola “Pain” per catapultarci nel migliore coro di sempre e ci troveremo ad inneggiare sotto un’unica bandiera stracciata il nostro capitano. Grinta e passione fanno da propellente alle asce, in un duello di assoli entusiasmanti. Insomma, “Pain” è la hit che aspettavamo, la prova ultima che rivela un Udo non ancora appannato, capace di togliersi qualche soddisfazione con i propri ex-colleghi Accept.

Per ritagliarsi ulteriore spazio (e soddisfazione), il combo estrae la carta della ballad agrodolce “Secrets In Paradise”, dove i tocchi gentili dell’acustica (Scorpions) vengono tormentati dalla ruvida voce, mentre le chitarre gemelle ricamano vibrati struggenti.

Il rapido fuoco di sbarramento di “Meaning Of Life” riporta in carreggiata il carro armato, tornando a solcare i territori del classic metal tanti cari al leader, sempre con quel pizzico di melodia cameratesca del coro.

Scorrendo con totale noncuranza la lunga tracklist, i rimandi al background acceptiano sono vivi e presenti e l’eredità sembra perpetuarsi alla stregua di una ricorrenza festiva, senza che il mitico “panzer” si preoccupi di concetti troppo astrusi e avulsi dal classicissimo heavy. E così viene sferrato l’attacco stradaiolo di “Brethless”, groove rovente che cita “Love Child” nel coro pulsante e mantiene intatto la passione per i vibrati di “Midnight Mover”. Prevedibile ma non meno appagante.

In “Under Your Skin” la formula viene rigorosamente rispettata (repeat epico ed orecchiabile/riff schiacciasassi), aggiungendo maggiore frenesia e lunghe, insospettabili partiture chitarristiche.

Più lineare ed arcigna “Untouchable” che, con i battiti incontrollati di “Rebels Of The Night”, fa riaffiorare l’impeto rabbioso di Udo, calato sempre di più in un palcoscenico di macerie fumanti e scenari guerreschi.

Il commiato di “Words In Flame” è, tuttavia, inatteso: riff marmorei si intrecciano a scorci tastieristici e fanno braccia sprazzi sinfonici, senza disdegnare corpose influenze power, in un connubio di sicuro impatto.

La progressione finale di “Words In Flame” mostra le potenzialità di questo album: pezzi apparentemente canonici o senza grandi pretese, si sviluppano in modo più dinamico e, talvolta, atipico di quanto previsto. Tutto dimostra una volontà di unire pruriti heavy con la maestria del tecnicismo power, senza eccedere in virtuosismi pacchiani. Certo, le novità non sono molte e pesa indubbiamente l’eredità del singer, tuttavia “Decadent” si innalza sopra la moltitudine di cloni, mantenendo una propria identità e dignità, grazie anche alla voce peculiare di questo immortale flash rockin’ man. In guardia Accept: la partita è ancora aperta…

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