Recensione: Deceiver Of The Gods

Di Daniele Balestrieri - 10 Agosto 2013 - 19:55
Deceiver Of The Gods
Band: Amon Amarth
Etichetta:
Genere:
Anno: 2013
Nazione:
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70

La fine degli anni ’90 ha visto proliferare un’enorme quantità di band che è stata in grado di agguantare la nascita della rete e di sfruttarne la sfrenata condivisione tra utenti per arrivare laddove anche solo 5 anni prima sembrava impossibile arrivare. Per band più masticabili è stato un gioco da ragazzi, ma gli Amon Amarth hanno rappresentato un sogno proibito che si è realizzato solo per un numero ristretto di band: esordire con un target di nicchia e raggiungere, 15 anni dopo, un successo crescente e via via sempre più universale.

Dedizione, touring sfrenato e duro lavoro danno i loro frutti, nonché una oculata cavalcata dell’onda del cosiddetto Viking Metal che tra il 2002 e il 2005 ha catapultato diverse band nello “stardom” dei rispettivi generi.
In quanto band di punta di Metal Blade, la quale per la prima volta non ha curato la versione iper-deluxe del disco lasciando l’onere di produrre qualcosa di kitsch ad EMP, gli Amon Amarth hanno avuto tempo e soldi per produrre in tutta tranquillità il materiale che desideravano, con un obiettivo in mente: diventare ancor di più – se mai fosse possibile – una band live-oriented. Per questo si sono affidati alle mani di un veterano come Andy Sneap (Cradle of Filth, Cathedral, Exodus, Megadeth, Opeth…) per abbandonare il sound effettivamente un po’ troppo asettico dei lavori precedenti e raggiungere una profondità maggiore di basso e di percussioni, perché si sa, il death viking deve massacrare il canale dei bassi.
Missione compiuta, l’album suona più profondo, leggermente più sporco e a tratti persino heavy metal, con dei richiami quasi iron maideniani in “Father Of The Wolf” o in “As Loke Falls”, per non parlare ovviamente dello sfacciato richiamo Priestiano di “Hel”, sulla quale tornerò in seguito.
A tal proposito non deve sfuggire il secondo CD della versione limitata, serigrafato con il logo degli AA in versione Judas, ACDC, Motorhead… e contenente diverse canzoni bonus tutte sulla falsariga dei più grandi maestri dell’heavy metal mondiale.
Credo che più si diventi “vecchi” e più si tenda a rifiutare i propri estermismi giovanili, per rifugiarsi nel conforto di generi musicali già testati come immortali e senza tempo. Hegg quest’anno è in piena crisi dei 40 anni e, un po’ come i Darkthrone, ha tra le righe lasciato trapelare il desiderio di ammiccare ai classici in modo sempre più preponderante, allontanandosi bellicosamente da etichette che considera puerili come “Viking Metal” o “Pagan Death” vattelapesca. Capisco il suo punto di vista, ma capisco anche che è da ingrati leccare e sputare sulla stessa mano da cui si mangia, tanto per dirne una.
Eppure Sneap ha regalato sound abbastanza inusuali per gli Amon Amarth, percettibili forse solo dalle orecchie più smaliziate ma pur sempre in grado di virare verso un death un po’ più ragionato e questo ha portato ad alcuni brani degni di essere citati come i migliori mai prodotti da qualche anno a questa parte, “With Oden on Our Side” permettendo.
Tralasciamo la title track, il classico gettone d’entrata di ogni album degli Amon Amarth: brutale, veloce, tagliente, un classico istantaneo… che si perde nel fiume dei classici istantanei degli Amon Amarth. Per alcune band, “Deceiver Of The Gods” potrebbe essere un punto di arrivo, ma per gli Amon Amarth diventa quasi una filler: sappiamo tutti che ci deve essere e così è, e Hegg ha pensato bene di metterla subito da parte salvo incominciare a esplorare la vera anima dell’album.

Un’anima che bisogna scavare, ancora una volta, per trovare. Al cinquantesimo ascolto di questa nuova fatica ho ritrovato finalmente le stesse emozioni di “Twilight of the Thunder God” – album che considero forse il migliore dell’epoca post-“Vs the World”. “Warriors of the North” è un po’ il seguito sdolcinato di “Embrace of the Endless Ocean” e il soprendente duetto di “Live for the Kill” con gli Apocalyptica è qui replicato da un altro magnifico duetto con il sommo Messiah Marcolin che dona la sua incredibile voce alla traccia più inconvenzionale dell’album, quella “Hel” che sembra uscita dalla cantina di Halford, con tanto di pelle e borchie.
L’album si innalza con “Father of the Wolf”, “As Loke Falls” e con la abusata, ma sempre d’effetto, descrizione del rituale della “Blood Eagle” – si parla di death melodico ai suoi picchi più esasperati, quasi un manuale di definizione del genere piuttosto che un vivido esempio di sperimentazione e di esecuzione “out of the box”.
Non troverete in effetti nulla che non abbiate già sentito in qualche altro album degli Amon Amarth e risulta anche un po’ ridondante raccontare quanti bpm conti la trascurabile “Shape Shifter” o in che modo si accordino le linee di chitarra con la martellante batteria di “Coming of the Tide”. Questo è un album diretto, che non sorprende e non lascia sorprendere. È come quando sbattete il mignolo del piede contro lo stipite della porta: vi è già successo altre 100 volte, ma non per questo ogni volta non fa un male bestiale.
Oramai, più del “come” o del “cosa”, riguardo agli Amon Amarth bisogna disquisire sul “perché”.

Da sempre, croce e delizia degli Amon Amarth è stata la predicibilità, la testarda linearità del proprio mestiere, l’incrollabile coerenza delle loro proposte. Sono i fabbri del Death Viking Melodico e dalle loro fucine escono, e continuneranno a uscire, sempre le stesse armi. Magari vorreste dell’altro, eppure non chiedereste a un fabbro di farvi una borsa di pelle. Passereste per citrulli e probabilmente vi manderebbero a quel paese. Per le borse di pelle andreste da qualcun altro.

Allo stesso modo non chiedereste agli Amon Amarth di cantarvi La Masquerade Infernale. Oramai lo sanno anche i sassi che sono riconosciuti, a guisa di Manowar del death, per la loro instancabile aderenza al genere proposto. Sono fabbri che hanno sempre costruito spade e mazze; non vogliono e probabilmente nemmeno possono imparare a cucire borse. E perché imparare a farlo, quando il mercato è già saturo di conciatori e sarti di ottimo livello?
I fans sanno bene cosa vogliono dagli Amon Amarth: nemmeno un mese dopo il debutto sul mercato, “Deceiver of the Gods” già faceva capolino nella top 20 di alcuni paesi europei come la Svezia o l’Ungheria. Di contro, gli Amon Amarth sanno bene cosa vogliono i fans e ciclicamente ripercorrono lo stesso sentiero fatto di canzoni quasi perfettamente interscambiabili.

A qualche giorno dall’uscita di quest’ultimo album ho chiesto a quattro amici Amon-Amarthiani cosa ne pensassero di questo “Deceiver of the Gods”. Le risposte che ho ricevuto sono state davvero emblematiche: due mi hanno detto che era ottimo, due che faceva schifo. Uno dei due a cui è piacuto mi ha detto che gli è piaciuto perché è rimasto fedele ai predecessori. Uno dei due a cui ha fatto schifo ha addotto come motivo l’estrema distanza da tutti i predecessori. Non avevo ancora ascoltato l’album, ma a questo punto avevo già capito tutto. Gli Amon Amarth ci erano riusciti ancora.
È proprio quando gli “old timers” della band scuotono la testa con disappunto nel sentire che qualcuno cita “With Oden on our Side” o “Surtur Rising” come gli “album migliori mai prodotti dagli Amon Amarth” che si palesa la grande forza della band svedese: il continuo ricambio generazionale, l’orda di nuovi adepti conquistati grazie ai rocamboleschi e sfarzosi spettacoli inscenati nel corso dei loro continui e infaticabili tour. Ogni anno sbocciano amori a prima vista, e se un neoamon-amarthiano ascolterà per primo un album considerato dai più navigati come fiacco, non importa. Quello diventerà il suo album preferito dell’intera discografia. A testimonianza di quanto consistenti fino al midollo siano sempre stati e di quanto continueranno a dividere il pubblico con l’andare del tempo.

Quest’album non è da meno: è un Amon Amarth, è come una Ferrari. Forse un po’ ridondante, ma pur sempre una macchina di lusso. È impossibile aspettarsi un album “pessimo” dagli Amon Amarth: le loro qualità di cantori, guerrieri, suonatori e intrattenitori non sono più da tempo sul banco di giudizio. Resta solo da discernere cosa piace e cosa non piace al singolo ascoltatore. Dal mio punto di vista di vecchio (e stanco) Amon Amarthiano, l’album non è nulla di memorabile: è buono per una birra e per headbangare in un festival, buono per ricordarci che esistono ancora Thor e Loki e che possiamo ancora contare su qualcuno che soffi via la polvere dalle pagine dell’Edda.
Resisterà al passare del tempo? Probabilmente più di “Surtur Rising” per via di una produzione più incisiva. Ma dubito che il prossimo anno in molti ne ricorderanno la tracklist intera. Tuttavia i loro concerti continuano a registrare affluenze sempre più massicce, e allora mi chiedo, in questa fredda mattina d’agosto… saranno davvero loro che stanno sbagliando strada… o siamo noi ad esseci allontanati?

Daniele “Fenrir” Balestrieri
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