Recensione: December
“December”, secondo album per gli italici Hadal, si è rivelato un osso duro ma, a conti fatti, anche una scommessa in parte vinta dal quintetto triestino. Per coloro che, come me, non li conoscevano fino alla data odierna, posso dire che i nostri propongono un corposo e sentito mix di doom e gothic metal – quest’ultimo inteso nell’accezione più tradizionale del termine – con qualche increspatura più agguerrita di tanto in tanto. In altre parole: niente vocalizzi eterei o tastiere in odor di power sinfonico mascherato per dare al tutto un’aria fintamente decadente, ma solo malinconia, disperazione e angoscia scandite da ritmi pesanti, chitarre grasse e plumbee in costante bilico tra arpeggi mesti e sferzate opprimenti, un basso errabondo e una voce che saltella da un’impostazione pulita di tutto rispetto (che si sposa alla perfezione al resto degli strumenti e che più di una volta mi ha ricordato il Deathmaster più declamatorio) a ruggiti dal profumo death.
Con “December” i nostri mescolano passato e presente, riarrangiando alcune tracce dei passati demo e affiancandole a brani nuovi per donarci una sorta di cronaca musicale della loro prima decade di attività: nove tracce per 48 minuti emotivamente densi, cupi, durante i quali praticamente tutti i dettami del doom (che, seppur sporcato di gothic, risulta comunque l’ingrediente predominante) vengono rispettati in un modo che oso definire zelante. A voler essere cattivi, infatti, si potrebbe dire che il principale difetto di questo “December” sia da ricercare in una certa monotonia, dovuta forse a una personalità ancora in via di sviluppo: tutto è esattamente al suo posto, perfettamente incastonato nel monolite sonoro dei nostri, ma in più di un’occasione si percepisce la mancanza del classico cambio di passo. Badate bene, però: ho scritto “a voler essere cattivi” non a caso. Nonostante i due difettucci segnati poc’anzi, infatti, posso affermare senza timore che “December” è sicuramente un bel lavoro: sentito, corposo e appagante.
È vero, gli Hadal se si mantengono sempre nell’acqua bassa, per così dire, ma pur rischiando pochissimo riescono comunque a impreziosire il loro tessuto sonoro con sporadici ricami, donando qualche riflesso meno convenzionale ad alcune tracce. Emblematico l’esempio della title track in apertura che, dopo un’avanzata lenta ed imperiosa su un tappeto malinconico e carico di un pathos senza speranza, poco prima del finale esplode in due minuti di furia black per poi tornare ai riff appiccicosi e dissonanti che ne avevano caratterizzato l’inizio. Con “My River” si prosegue nell’opera di dispensazione di melodie disperate e riff sofferti, con Alberto che, dietro al microfono, catalizza su di sé tutta l’attenzione, mentre con “Red Again” i nostri creano una traccia sinuosa, tra arpeggi lenti e rapidi indurimenti che trovano compimento nel climax finale. “Dark Water” procede grossomodo sulla stessa rotta, alternando passaggi disperati, guidati da melodie vagamente ipnotiche, a brevi sfuriate. “The Obscure I” introduce una nota più inquieta nella ricetta, sempre sormontata da una voce evocativa, che si fa insistente negli sporadici ispessimenti. Un’apertura incombente caratterizza invece “Without a Word”, traccia più quadrata in cui predomina una nota di minaccia che si stempera solo di tanto in tanto, durante i radi passaggi più sofferti che, però, guadagnano un certo peso mentre ci si avvicina al finale. “Nothing Here” prosegue il discorso acuendo, però, la dose di malevolenza nei segmenti più rabbiosi che guadagnano addirittura un profumo esotico. Il breve assolo lascia filtrare qualche spiraglio di speranza, che viene però spazzato via nel finale di nuovo minaccioso. La stessa veemenza si avverte nell’apertura di “Cold Lake”, altra canzone lenta, pesante e scandita da chitarre grosse che solo di tanto in tanto cedono il passo ad arpeggi più mesti. L’incedere poderoso della traccia si ammanta di una certa solennità battagliera, sporcata però anche da una vena progressive appena accennata (ma molto appetitosa) che si percepisce, seppur in modo un po’ discontinuo, durante tutto l’ascolto dell’album e che, pensandoci meglio, non mi è affatto dispiaciuta. Chiude l’album la a mio avviso ottima “Stormcrow”, agguerrita e insistente nella sua ricerca di enfasi battagliera (un po’ alla “Let Battle Commence” dei Doomsword) i cui pochi momenti tranquilli sono sempre guardati a vista da una tensione mai sopita, che le dona un retrogusto epicheggiante e compatto.
Come già scritto in precedenza, “December” non inventa nulla, e alla lunga la sua monotonia di fondo potrebbe penalizzarlo un po’ rispetto a lavori più smaliziati, ma – anche qui come scritto in precedenza – questo non è sufficiente ad affossare un lavoro compatto, molto ben suonato ed atmosfericamente appagante. Ascolto perfetto nelle giornate uggiose.