Recensione: Del Flusso Eterno
“Del Flusso Eterno” è il debutto (dopo il demo “Randir”, di un paio di anni fa) dei Taur-Im-Duinath, one man band proveniente da Eboli, provincia di Salerno, facente capo a Francesco del Vecchio, già chitarrista dei concittadini Pàrodos. Molti di voi potrebbero aver colto il nome di chiara derivazione tolkeniana (nel linguaggio dei Sindar, una delle stirpi elfiche che popolano la Terra di Mezzo, Taur-Im-Duinath significa Foresta tra i Fiumi e indica una grande area boschiva che, nella Prima Era, si estendeva a est delle Bocche del Sirion e che venne distrutta dopo la Guerra dell’Ira): ciò che potreste non sapere è che dietro questo nome si cela, ma questo ve lo dico io, un album di black metal atmosferico. In realtà, il collegamento col Professore è riscontrabile solo nei tre intermezzi strumentali che aprono, chiudono e spezzano l’album, visto che il resto delle tracce (cantate in italiano) riguarda una serie di temi universali, i cui riverberi esistenziali vengono ben tratteggiati da testi tutt’altro che banali. La produzione puntuale e lo screaming scandito e perfettamente comprensibile di del Vecchio, inoltre, permettono di seguire il messaggio dei Taur-Im-Duinath anche senza il libretto alla mano, consentendo un’immersione più diretta nell’atmosfera dell’album, condizione a mio avviso fondamentale per comprenderne il messaggio. Non a caso parlo di atmosfera, poiché ritengo indubitabile che “Del Flusso Eterno” viva essenzialmente di profumi, emozioni e immagini per far breccia nelle difese dell’ascoltatore; la materia musicale, nella fattispecie, si pone a metà strada tra il black più canonico e minimalista, quello affilato e sferzante ma non privo di una melodia di fondo (cito a titolo di esempio la partenza sfolgorante di “Così parlò il Tuono”), e il suo gemello più attento a certi mood atmosferici: ecco quindi che si passa dalle insistenti frustate tipicamente black a fraseggi più solenni, meditativi (“Il Mare dello Spirito”), arricchiti ogni tanto da rallentamenti inquieti, dal taglio quasi rituale, e brusche accelerazioni ai limiti della cavalcata heavy, con fugaci iniezioni di tristezza e rassegnazione a donare profondità al tutto. Il risultato è un album che, se da un lato si dimostra musicalmente diretto e giustamente arcigno, dall’altro rivela una pesantezza di fondo (dovuta anche a una certa prolissità che affiora di tanto in tanto, come ad esempio in “Rinascita” o nella seppur molto bella “Ceneri e Promesse”) che lo rende un lavoro di non facilissima assimilazione, in cui è necessaria una certa attenzione per non perdersi. Entrando un po’ più nello specifico, ho molto apprezzato sia il lavoro delle chitarre, capaci di passare nello spazio di un battito di ciglia da rasoiate gelide a fraseggi acustici dal taglio contemplativo, mistico, che l’ottimo scream di Francesco, roccioso e viscerale quanto basta ma senza mai scadere nell’isterismo fine a se stesso.
Le canzoni vere e proprie di “Del Flusso Eterno” sono tutte piuttosto lunghe e articolate: ciò consente a Francesco di variare il tono all’interno di ogni composizione per meglio veicolare il suo messaggio di brutale catarsi. Purtroppo, nonostante apprezzi parecchio i brani di questo tipo, devo ammettere di non essere riuscito a godermi fino in fondo questo “Del Flusso Eterno”: colpa, forse, della già citata prolissità che inficia, a mio avviso, la fruibilità di alcune tracce con dei passaggi non perfettamente sfrondati da elementi non necessari, o degli intermezzi strumentali che, per quanto ben eseguiti e molto atmosferici, mi risultano un po’ fuori contesto andando a detrimento della resa complessiva. Fatto sta che, al netto di ripetuti ascolti, ho più volte percepito la mancanza di qualcosa, di quella scintilla che permettesse a “Del Flusso Eterno” di svettare sopra le altre uscite di black atmosferico e di porsi come qualcosa di più che un solido debutto. Ad ogni modo le potenzialità ci sono tutte, vedremo con i prossimi lavori come verranno sfruttate.