Recensione: Deliverance
Nuovo album per la straordinaria band che forse più di ogni altra negli ultimi anni ha fatto parlare di se per l’altissima qualità dei propri lavori e l’incredibile capacità che sembra dimostrare di poter sfornare un capolavoro dopo l’altro: gli Opeth.
Negli ultimi anni gli Opeth sono diventati sinonimo di capolavori indiscussi, in particolare dopo l’ultimo strepitoso Blackwater Park. Ora con questo Deliverance sembrano essere arrivati all’ennesimo varco in cui ssi sottoporranno al giudizio del pubblico e della critica.
Naturalmente la domanda che tutti si stanno ponendo è se questo Deliverance è il nuovo capolavoro che tutti si stavano aspettando oppure il primo flop di questa incredibile band. Beh, per tutti coloro che avevano intenzione di acquistare questo disco a scatola chiusa fidandosi del nome ho un solo commento: avete fatto bene!
Infatti gli Opeth non deludono assolutamente le aspettative che i fan potevano avere nei confronti di questo album e piazzano un’altra zampata vincente sfornando l’ennessimo bellissimo album, ma ora basta gingillarci in chiacchiere e passiamo subito a parlarne.
Devo confessare che quando recensisco album belli come questi mi sento un po’ in colpa e quasi mi sembra di fare un torto a coloro che leggeranno la recensione perchè sono convinto di togliergli un po’ di magia rivelando loro prima cosa andranno ad ascoltare una volta che avranno il cd nel loro lettore.
Ma bando alle ciance, come metto l’album nello stereo mi accorgo che il tempo di riproduzione del disco è di oltre 60 minuti e le tracce sono 6, quindi una media di 10 minuti per traccia, decisamente niente male.
Schiaccio il tasto “play” e vengo investito dall’attacco di batteria di Lopez che mi aggredisce con una potenza incredibile, così comincia Wreath, forse la canzone più devastante di tutto il disco e più in stile tipicamente black con chitarre graffianti, batteria martellante e voce dall’oltretomba. Ma ovviamente questo è solo l’inizio perchè presto l’attacco sonoro dell’inizio va spegnendosi lasciando spazio ad atmosfere più tranquille e diciamo più tipiche degli Opeth.
Lungo gli oltre dieci minuti della prima canzone trovano spazio un po’ tutti gli stili musicali a cui ha legato il proprio nome la band, dalle musiche più violente e black degli inizi alle atmosfere più riflessive, più dark e gothic che sono col tempo diventate marchio di fabbrica del gruppo.
La seconda song è la titletrack e comincia anch’essa con un attacco violento di chitarre, ma poi va quasi subito spegnendosi lasciando il posto alla voce pulita che nel corso della canzone si alternerà al cantato growl così come le parti lente si alterneranno a quelle più violente. Una canzone che però dura oltre 13 minuti e che non è letteralmente possibile raccontare tutta in un articolo, 13 minuti di musica con tante e tali idee che a un altro gruppo probabilmente sarebbero bastate per farne un disco intero.
A Fair Judgement inizia con un lento giro di piano, triste e malinconico su cui la voce pulita inizia a cantare con aria afflitta, poi in un crescendo la canzone salirà di tono e attaccherà la chitarra elettrica per trasformare ripetutamente la canzone nei 10 minuti che la compongono. Questo è l’inizio della terza canzone che però è così ravvicinato alla fine della precedente da far quasi pensare a una continuazione della seconda traccia, così come la seconda era attaccata alla prima, al punto che a un primo ascolto ho quasi pensato a un disco di una sola canzone separata per comodità in più brani.
La quarta traccia, la strumentale For Absent Friends è la canzone più corta di tutto il disco e meraviglia, in confronto alle alte canzoni, che duri solo poco più di 2 minuti; due minuti di chitarra acustica, lenta e ispirata.
Si torna però a pestare con Master Apprentices che si apre con un granitico riff di chitarra elettrica. Canzone che rimane per tutti i primi cinque minuti su voce growl, riff pesanti e batteria pestata, anche quando si ricorre all’uso della voce pulita, ma poco dopo i cinque minuti compare la chitarra acustica che in compagnia della voce pulita stravolge completamente la canzone facendola diventare qualcosa di completamente diversa, quasi neanche più metal.
Chiude l’album la sesta traccia By the Pain I See in Others, un’altra lunga canzone di oltre 10 minuti, in cui la componente violenta è più marcata degli stacchi lenti e riflessivi che sono molto pochi, così come la voce pulita che non viene quasi mai utilizzata. Un’annotazione e un consiglio per concludere, quando anche la canzone sarà finita non spegnete lo stereo ma lasciatela andare a avanti, c’è una sorpresa e dopo aver ascoltato la prima sorpresa lasciate andare avanti ancora il disco in attesa della seconda.
Ancora una volta sono rimasto piacevolmente sopreso di fronte a questo nuovo album degli Opeth, un gruppo dalle mille sfaccettature, con una vena creativa quasi senza fine, in grado di sfornare uno dopo l’altro album dal livello qualitativo straordinario e di essere in grado di fondere metal cattivo, black, gothic ad atmosfere che ricordano da vicino certi lavori dei Pink Floyd e dei primi U2.
Per concludere gli Opeth hanno piazzato secondo me l’ennesimo disco eccezzionale e che farà la felicità dei loro fans. Chi li conosce già sicuramente non avrà bisogno di questa mia recensione per andare ad accaparrasri l’album, anzi, probabilmente l’avrà anche già comprato, per gli altri spero che vorranno tentare l’investimento e scoprire un gruppo straordinario come gli Opeth.
Tracklist:
01 Wreath
02 Deliverance
03 A Fair Judgement
04 Fos Absent Friends (Instrumetal)
05 Master Apprentices
06 By The Pain I See In Others
Alex “Engash-Krul” Calvi