Recensione: Departure
Debut-album per gli statunitensi Ocellus, sestetto nato nel 2009 in quel di Burlington che, dopo aver bruciato le tappe grazie a una serie di live incendiari, si è accasato presso la Pavement Entertainment per stampare “Departure”, già uscito l’anno scorso come autoproduzione.
La professionalità di Matt Meyer e compagni deve essere una componente fondamentale del loro DNA, poiché “Departure” ha un suono così adulto e maturo da far presupporre, alle sue spalle, una storia ben più lunga di quella reale. La maturità messa in bella mostra dai Nostri, infatti, si può considerare allineata a quella posseduta dagli ensemble la cui carriera abbia raggiunto i massimi livelli di qualità tecnico/artistica. Non è un caso, peraltro, che il termine ‘progressive’ esca più di una volta, scorrendo la loro ridotta – per forza di cose – biografia.
Ma di progressive (rock/metal), almeno a parere di chi scrive, nella musica degli Ocellus non ce n’è poi tanto. A ben vedere anzi ascoltare, senza inerpicarsi sugli specchi con complicate definizioni, la loro proposta altro non è che ‘semplice’ metalcore ove il virgolettato, a scanso di equivoci, significa che le coordinate stilistiche di base del genere stesso si trovano con facilità, in “Departure”. A partire da un sound secco e tagliente tipico del panorama *-core sino ai breakdown iper-rallentati che spuntano come funghi, passando per le tremende harsh vocals di Meyer e le improvvise aperture melodiche dei cori, non pare davvero esserci molto di più rispetto ai canoni ortodossi della tipologia musicale predetta. Certamente, la bravura con cui i musicisti del Wisconsin maneggiano gli strumenti, evidente in ogni brano del CD, non può sfuggire nemmeno agli orecchi meno attenti, ma alla fine dei conti non si ha la sensazione di avere più carne al fuoco rispetto ad altri lavori similari come, per esempio, “State: In Denial” dei Demotional o “Days Of War” dei Pendact. Nemmeno la peculiarità di avere tre chitarre in formazione, peraltro, pare fornire al sound qualche marcia in più. Seppur bravi, Jordan Campbell, Jake Griffith e James Hilderbrand, nel macinare tonnellate di riff compressi e dal tono ribassato rispetto all’usuale, rifiniti da arzigogoli solistici più o meno complessi, non riescono comunque a dare – almeno in studio – quella spinta in più che ci si aspetterebbe. Meno lineare della media del genere, questo sì, il drumming di Kris Goodendorf che, mantenendo intatto l’impatto sonoro, passa con notevole disinvoltura dagli stop’n’go ai blast-beats.
Se nulla si può dire sulla preparazione tecnica degli Ocellus e sulla loro abilità esecutiva, si può invece affermare che sia ancora piuttosto lontano il traguardo del pieno sviluppo in materia di songwriting. Malgrado si sia più su scritto della maturità tecnico/artistica da essi raggiunta in breve tempo – che ha comportato fra l’altro la definizione di uno stile costantemente consistente – , questo fatto non significa necessariamente l’aver compiuto un analogo percorso nei misteriosi meandri della creatività. Proprio lo stile, in primis, non presenta molti elementi di distinzione da quello posseduto da tante altre realtà che bazzicano l’ambiente metalcore. Poi, soprattutto, non c’è ancora quella dose di creatività indispensabile per rendere memorabili delle canzoni che, allo stato attuale, paiono essere esageratamente scolastiche, prevedibili. Anche passando e ripassando decine di volte “Departure” nel lettore, insomma, non rimane granché, in testa. Si può citare il chorus di “A Life Once Lost” come esempio di buona melodiosità, ma si tratta in ogni caso di un passaggio che sa di ‘già sentito’ lontano un miglio. E, come questo, tanti altri sparsi qua e là nel percorso, un po’ anonimo – quindi – , delimitato da “Epiphany” e “The Great Escape”.
Alla fine, nell’illusione derivante da una potenzialità teorica senza dubbio rilevante, rimane l’amaro in bocca per quello che sarebbe potuto essere, “Departure”, e che invece non è stato. Se gli Ocellus non cambieranno registro nel loro modo di comporre, difficilmente scaveranno un solco che resterà visibile, nella Storia del metal o, come si preferisce, del metalcore.
Daniele “dani66” D’Adamo
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